Di Gilles Bourquin*
Traduzione di Giacomo Tessaro
Negli ambienti pietisti il timor di Dio viene presentato come un valore spirituale positivo: rappresenta il rispetto, l’amore, la riserva prudente che dobbiamo osservare in quanto peccatori di fronte alla magnificenza di Dio. Così definito, il timor di Dio costituisce la versione cristiana di un atteggiamento universale dello spirito religioso, che descrive la condizione di vassallaggio dell’essere umano di fronte al Principio Ultimo. In questo senso, non mi pare fruttuoso pretendere di farne a meno. Dovremmo tuttavia liberarci da certi modi servili di temere Dio, che oscurano la vita spirituale invece di rischiararla. Rinchiudersi nell’ossessione dei doveri religiosi è forse il più caratteristico. La Riforma del XVI secolo e il protestantesimo si rivolgono in primo luogo contro questo flagello. Basta mancare al culto, trascurare la preghiera quotidiana, abbandonare l’austerità ed ecco che compare il senso di colpa, che svaluta l’immagine che abbiamo di noi stessi. La spiritualità è intrappolata nella monotonia obbligatoria. Non sono in discussione il culto o la preghiera, ma il legame soggettivo che abbiamo con queste pratiche!
Un altro aspetto spiacevole del timor di Dio è l’inquietudine che tale concetto suggerisce. Il senso di colpa conduce al giudizio, il giudizio conduce alla paura, e la spirale della sconfitta non ci abbandona più. Per uscirne dobbiamo rivedere la nostra spiritualità a partire dalla convinzione che Dio accetta le nostre carenze. L’autentico timor di Dio consiste nel riconoscere la sua grazia e non nella speranza dei nostri meriti. Al di là dei nodi ingarbugliati della nostra personalità, lo slancio creativo ci conduce verso un cammino aperto.
* Gilles Bourquin, dopo aver studiato teologia protestante a Neuchâtel, si dedica per una quindicina d’anni al ministero pastorale. Autore di una tesi di dottorato sulla teologia della spiritualità, è dal 2013 redattore responsabile del giornale “La vie protestante”.
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