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Le teologie liberali in un mondo che muta

Una inquietudine fondamentale pesa sugli interrogativi dei teologi liberali: l’inquietudine del tempo che passa, il tempo in cui tutto viene al mondo, si sviluppa, matura, poi invecchia, si degrada e infine scompare. Secondo i teologi liberali, le teologie sono sottomesse al ritmo del tempo tanto quanto gli altri elementi della storia. Similmente alle specie, agli individui, agli imperi e alle correnti culturali, le teologie non sono eterne ma temporali, storiche, evolutive. Se le teologie liberali ricercano senza sosta una fede moderna è perché la fede può ritrovarsi sfasata, invecchiata, inadatta; e se sulla loro pertinenza si può discutere è perché le mutazioni in corso potrebbero rimetterle in discussione.

La fede e la teologia non sembrano quindi godere della tranquilla atemporalità degli dèi, piuttosto sono anch’esse messe a dura prova e costantemente sballottate dai marosi del tempo. Esiste infatti una storia della fede e una storia della religione. Esiste un Antico poi un Nuovo Testamento, una Chiesa antica poi una Chiesa medievale, che si scinde in una Chiesa detta riformata e in un’altra detta cattolica. Dopo la Riforma (sempre semplificando) c’è un vecchio poi un nuovo protestantesimo, il quale diviene tradizionale, liberale, sociale, del Risveglio, neocalvinista o altro ancora. Sono i dettagli più minuti di queste innumerevoli mutazioni, rotture e adattamenti che fanno la storia delle Chiese, la storia delle comunità locali e infine la storia di ciascun credente, che riproduce spesso in scala ridotta le tensioni tra queste opzioni disegnate dalla storia. Chi dice storia dice cambiamento, e chi dice cambiamento dice necessità di abbandonare l’antico e creare il nuovo, gesti che suscitano angoscia e incertezza perché ci mettono di fronte al vuoto, al possibile e alle incertezze dell’esistenza.

A questo punto facciamo notare che quello che abbiamo appena affermato a proposito della storia della Chiesa può essere allargato all’insieme della storia della vita sulla Terra: a partire dalle sue radici fisico-chimiche, attraverso l’evoluzione biologica nel corso delle ere geologiche fino alla recente comparsa dell’uomo la vita sembra attivata da un costante squilibrio verso l’avanti; sono infatti gli squilibri energetici nella materia che suscitano le reazioni biochimiche, sono le mutazioni geologiche e climatiche che creano il disadattamento delle specie, provocandone l’adattamento o l’estinzione; è la fame che spinge l’animale a cercare il nutrimento; è stato il bisogno, il pericolo o il disagio ad aver suscitato in primo luogo la riflessione umana, generando un insieme di soluzioni vitali sempre più elaborate che si chiama civilizzazione. Ovunque il cambiamento, l’evoluzione e la storia nascono da un vuoto da colmare, da una imperfezione, una insufficienza, una perpetua incompiutezza del mondo che anela senza sosta al suo perfezionamento.

Proprio come la velocità dell’evoluzione biologica non è costante, il corso della storia umana è raramente lineare, piuttosto è sismico, fatto di resistenze e fronde, un’alternanza tra periodi stabili e periodi turbolenti, di fronti rivoluzionari e correnti conciliatrici. La stessa cosa avviene nella storia delle religioni e della Chiesa: dei periodi riformatori si alternano a dei periodi conservatori. Infatti, secondo un principio già largamente affermato dall’Antico Testamento, il corso della storia è traversato da un costante processo di giudizio. Qui la parola non designa la condanna, ancor meno l’annientamento, bensì il discernimento, l’intelligenza, la saggezza, il consiglio. La facoltà di giudizio è la capacità dello spirito di orientare la storia attraverso correzioni successive. È solamente quando gli avvertimenti non vengono ascoltati, quando il corso della storia si ostina e diviene totalmente demoniaco, come nel periodo nazista, che il giudizio si trasforma in condanna, poi in potenza di annientamento.

Abbiamo detto che la storia della Chiesa, della teologia e della fede non sfugge a questi due princìpi della storia che abbiamo appena enunciato: primo, il principio del costante squilibrio verso l’avanti, che spinge la vita a progredire e a svilupparsi, secondo, il principio di giudizio, che esercita costantemente la critica, rimodella, corregge questo progresso. È l’interazione di questi due princìpi, l’uno di fatto e l’altro di diritto, che determina il corso della storia umana.

Gli stadi di una tradizione religiosa

È così che l’azione di un fondatore di religione, di un profeta dal messaggio risonante, non appare mai in terreno neutro: è sempre una reazione a una situazione religiosa preesistente che è giudicata insoddisfacente. È precisamente il caso di Mosè, che reagisce alla schiavitù razziale; di Gautama Śākyamuni (il Buddha), che reagisce ai privilegi della nobiltà dalla quale proviene; di Gesù, che reagisce alla rigidità spirituale del sacerdozio giudaico; di Muhammad, che reagisce all’instabilità sociopolitica legata al politeismo instaurando uno stretto monoteismo; di Lutero, che si oppone all’asservimento religioso riaffermando la grazia personale; o ancora di Schleiermacher (1768-1834), il principale fondatore della teologia liberale, che di fronte alla fissità dottrinale dell’ortodossia rifonda la teologia sull’esperienza religiosa individuale e comunitaria. In ciascun caso, una protesta di diritto suscita il dinamismo dell’azione riformatrice.

Esasperato dalla paralisi della situazione religiosa, il profeta spezza il peso dell’autorità tradizionale e affronta la crisi che ne risulta. Denunciando l’immobilismo, l’indifferenza e i privilegi dei funzionari religiosi raccoglie attorno a sé gli scontenti, rallegrati e stimolati dalla sua autenticità. Essendo questo dinamismo profetico, per sua natura, estremamente fugace, esso produce in coloro che ne beneficiano la preoccupazione di fissarlo nella memoria collettiva. Mano a mano che lo slancio riformatore si struttura in una nuova corrente religiosa, le rivendicazioni iniziali danno luogo a delle nuove formulazioni. Paradossalmente, la volontà di conservare quello slancio spirituale conduce alle elaborazioni dottrinali.

Così, quasi inevitabilmente, la fase riformatrice viene seguita da un riflusso conservatore. Il dinamismo profetico evolve insensibilmente verso lo stadio seguente, quello dell’ortodossia. Nella Chiesa antica questo momento corrisponde ai concili ecumenici, e nel protestantesimo corrisponde alle ortodossie luterane e calviniste del XVII e XVIII secolo, che sistematizzano il messaggio dei Riformatori. Questo vecchio protestantesimo è caratterizzato dal tono assertivo della sua dogmatica e dalla sua solida dottrina al tempo stesso cristologica, ecclesiale, liturgica e morale.

Tuttavia la tendenza generale di questa transizione dalla fase riformatrice alla fase dell’ortodossia già annuncia il suo declino a lungo termine. Infatti l’energia riformatrice si riassorbe progressivamente nel processo di standardizzazione e di omologazione della fede. Irrigidendo il dinamismo riformatore originario, l’ortodossia finisce per veicolare delle idee e dei costumi sempre più sfasati rispetto alla vita dell’epoca presente. Le sue posizioni appaiono sempre più desuete e inappropriate e il suo edificio comincia a mostrare delle crepe. Presso l’opinione pubblica la fede appare ormai un elemento tradizionale: si va al tempio per convenzione ma senza vera convinzione.

Così, da comunità impegnata, la Chiesa si muta poco a poco in burocrazia. L’apostolo e il libero profeta dei primi tempi sono rimpiazzati dal ministro stipendiato. Parallelamente un processo di razionalizzazione trasforma l’esperienza spirituale in riflessione teologica; questo, delegando la creatività religiosa agli specialisti titolati, ha come effetto la marginalizzazione dell’ortodossia religiosa. Nel protestantesimo questo periodo corrisponde grosso modo al XVIII secolo, quando le ortodossie hanno cominciato a perdere il loro impatto sociale di fronte all’onda laicizzante del secolo dei Lumi.
La comparsa delle teologie liberaliIn questo contesto di indebolimento delle ortodossie protestanti sono apparse le prime teologie liberali che con i movimenti di Risveglio hanno dato luogo, a partire dall’inizio del XIX secolo, a quello che oggi si chiama il nuovo protestantesimo. Le teologie liberali, prendendo in contropiede le ortodossie teologiche, si sono prefisse il principio di liberare la fede protestante dalle zavorre dogmatiche per restituirle il suo dinamismo originario. In realtà la loro motivazione era duplice. Si trattava da una parte di adattare la fede alla cultura romantica del XIX secolo, rendendola più sentimentale, più intuitiva, più naturale e meno dottrinaria, dall’altra bisognava resistere all’autoritarismo delle Chiese tradizionali, la cui chiusura alle critiche sempre più massicce delle scienze naturali e dell’esegesi screditava il messaggio evangelico.

In questa prospettiva si può osservare che l’etichetta “teologia liberale” è incompleta, perché le teologie così designate comprendono almeno quattro caratteristiche diversamente accentuate da una corrente all’altra. In primo luogo esse sono “liberali” perché mettono in discussione l’autorità tradizionale delle Chiese permettendosi di interrogare quando non di contestare le loro dottrine. In secondo luogo sono “razionali” perché ritengono che la fede non si opponga né alla ragione né alla scienza sperimentale e che il credente sia non solamente in diritto, ma anche in dovere di riflettere alla pertinenza di ciò che crede. Terzo, sono “storiche”, come detto all’inizio, perché ritengono che le teologie non siano dei sistemi di pensiero immutabili bensì adattabili. Quarto, sono “esperienziali”, perché accordano un’importanza centrale al vissuto, all’esperienza religiosa, relativizzando le credenze. Le teologie liberali ritengono che la fede, nella sua essenza, non sia un contenuto di pensiero ma una forma di vita, un’esperienza di rinnovamento interiore.
Le teologie liberali al giorno d’oggiOggi, due secoli dopo la loro comparsa, le teologie liberali devono ciò nonostante confrontarsi con un problema apparso progressivamente, al quale non erano preparate, al punto da subire a loro volta l’usura del tempo e da far sorgere il bisogno di rinnovarsi. Questo problema imprevisto è legato alla marginalizzazione sempre più evidente delle autorità religiose che quelle teologie mettevano in discussione. Perché essere “liberale” abbia un senso bisogna che ci sia un’autorità dalla quale prendere le distanze. Oggi tale autorità forte assomiglia sempre più a un buco spalancato nel regno del relativismo e del bricolage religioso. In altre parole, le teologie liberali sono divenute vittime del loro successo, al punto che nel supermercato delle religioni rischiano di apparire tradizionaliste.

Con la fine delle ideologie, il mescolamento delle culture e il sincretismo che invade le nostre società occidentali, i movimenti contestatari ai quali appartengono le teologie liberali, vestigia delle rivolte di un tempo all’ancien régime del pensiero monolitico, sono a loro volta, in parte, non in linea con le loro origini. Dico “in parte” perché, pur conservando la loro duttilità e la loro finezza, le teologie liberali sono oggi indotte ad adottare un profilo meno unilateralmente contestatario, riallacciandosi con coraggio all’insegnamento positivo degli elementi essenziali della fede cristiana, in parallelo alla contestazione degli eccessi di autoritarismo.

Osservate come le spiritualità derivate dal buddhismo e dalle altre religioni orientali vengono diffuse attualmente in Europa: i manuali di spiritualità orientaleggiante, che sono legione nei nostri supermercati e nelle nostre edicole, non mettono l’accento sui dissensi tra le correnti religiose dell’Oriente che, non ci inganniamo, sono altrettanto numerose e amare che in Occidente. Lasciando da parte le dispute storiche interne, questi manuali si occupano di nutrire spiritualmente i loro lettori insegnando gli aspetti della spiritualità più utili per la vita quotidiana. In questo modo ai giorni nostri si opera progressivamente una fecondazione orientalizzante dello spirito europeo, come è stata operata una fecondazione cristiana durante il primo millennio della nostra era.

Se nel loro insieme i monoteismi sono oggi in crisi è perché hanno mostrato una tale intransigenza che la loro saggezza e il loro spirito di servizio godono generalmente di poca credibilità. Le loro esigenze spirituali appaiono troppo austere e lontane dalla vita quotidiana perché il grande pubblico possa interessarsene. In questo contesto un cristianesimo liberale che punta alla contestazione delle ortodossie e sulla valorizzazione di una fede consapevole non è privo di senso, anzi è appropriato, ma la teologia liberale non può più contentarsi di denunciare gli abusi di autorità di una fede che si suppone stabilita una volta per sempre. Ogni teologia è oggi chiamata a sviluppare il suo insegnamento positivo della fede, ricreando dei manuali di spiritualità di ispirazione cristiana destinati a un pubblico più vasto possibile, al di là dello zoccolo duro del protestantesimo storico.
Verso un profetismo postmodernoQuesta situazione storica può significare che abbiamo raggiunto la fine di un ciclo e che ci troviamo a un punto di svolta religioso che richiede una forma inedita di profetismo, con una struttura adatta al nostro secolo. Dopo il profetismo riformatore, l’ortodossia e il liberalismo, l’epoca attuale potrebbe benissimo essere post-liberale come è postmoderna, senza che si debbano rinnegare interamente i tratti caratteristici del liberalismo e della modernità che la caratterizzano, ma rimodellandoli perché la corrente delle teologie liberali conservi la sua pertinenza nelle mutazioni in corso. Io avverto quattro aspetti di questo rimodellamento, che vado a descrivere succintamente, che esprimono uno stesso progetto profetico su quattro piani differenti: il piano sociologico, il piano spirituale poi il piano cosmologico e, per concludere, il piano filosofico. Il piano sociologico: guarire dalla scissione moderna tra laicità e religione In reazione all’autoritarismo delle Chiese la modernità ha cacciato la religione dal centro della vita, instaurando una sfera laica che ha desacralizzato la vita individuale e sociale durante più di due secoli. Oggi assistiamo a una inversione moderata ma sensibile di questa tendenza; una delle ragione per le quali è pertinente parlare di postmodernità. Nel momento stesso in cui le grandi istituzioni del credere come le Chiese di Stato continuano ad essere emarginate, alcune disposizioni religiose riappaiono nel cuore della sfera laica. Questa inversione di tendenza, che sacralizza di nuovo il rapporto globale con la vita e che di colpo indebolisce l’opposizione tra la laicità e la religione, è legata a numerosi fattori, tra i quai in modo particolare la sconfitta delle grandi ideologie atee del XX secolo e la rivalutazione al ribasso delle promesse della tecnologia scientifica che si ricollega in modo particolare alla presa di coscienza ecologista.

Sul piano sociologico il compito del profetismo postmoderno è dunque di natura terapeutica: si tratta di guarirci dallo strappo tra la religione e la vita. La marginalizzazione della religione è stata generalmente giustificata dai difensori della modernità con le idee di progresso e di razionalizzazione del mondo, ma è anche il risultato di una ferita più dolorosa, che ha condotto al rigetto della profondità religiosa dell’essere umano. In questo senso, lungi dal costituire uno stadio perfetto dell’umanità, la secolarizzazione moderna comporta anche un certo rifiuto di sé. Quando Gesù si rivolge a qualcuno dicendogli “Tu, seguimi!” non si rivolge a un aspetto marginale della sua vita, né alla parte specificamente religiosa del suo essere, bensì al centro della sua persona. Mentre sul piano sociale bisogna separare le istanze politiche da quelle religiose al fine di garantire la libertà di coscienza, sul piano individuale la religione è tenuta a rivolgersi al nocciolo dell’anima, o perde ogni significato.
Il piano spirituale: l’intimo legame tra la mistica e l’eticaNella mentalità religiosa attuale questa concentrazione della religione sull’interiorità ha spinto l’individualismo religioso fino al limite estremo, al punto che la vita spirituale non vuole più dipendere da alcuna istanza esteriore. La spiritualità contemporanea è quindi essenzialmente immanente e trova la sua sorgente nell’uomo. Nella mentalità popolare essa si avvicina così alle spiritualità orientali e si allontana da quella cristiana, che pone la sua sorgente in un Dio trascendente. Lo spirito religioso attuale di conseguenza pone un dilemma alla teologia: se riafferma una spiritualità individuale problematizza la fede in un Dio trascendente che appare troppo distante dalla vita privata, troppo elevato, troppo assoluto o troppo esclusivamente riservato alla sfera della Chiesa, e di colpo troppo indifferente, troppo omogeneo o troppo impositivo, in poche parole inappropriato a stabilire l’intimo legame della fede.

Sul piano spirituale il compito del profetismo postmoderno consiste quindi nell’avvicinare il Dio trascendente all’immanenza perché possa apparire di nuovo vicino, quotidiano, colloquiale. L’ortodossia protestante, ribadendo l’insistenza dei Riformatori sulla grazia compresa come la rimozione di una sanzione giuridica ha forse aperto la porta a una comprensione troppo meccanica della salvezza. Se il perdono dei peccati viene compreso come l’atto essenziale di un Dio che si accontenta di chiudere gli occhi di fronte al carattere fondamentalmente malvagio degli uomini, l’uomo è in realtà lasciato solo con il suo destino terrestre. Questo Dio esteriore è scarsamente d’aiuto nella vita concreta. Per evitare questo scoglio spirituale dobbiamo riscoprire come l’unione con Cristo trasforma l’orientamento della nostra vita sulla terra. La relazione mistica, fondamento dell’interiorità, si accoppia così alla relazione etica, fondamento della nostra vita esteriore, sociale, politica e culturale.
Il piano cosmologico: verso una spiritualità ecologistaLa teologia cristiana, fin dai suoi esordi e fino ai nostri giorni, è attraversata dalla tensione tra delle concezioni più spiritualiste e altre più cosmologiche della salvezza. Secondo le prime il mondo materiale, la natura terrestre e cosmica costituiscono solamente una cornice temporanea nella quale si svolgono le prove che devono condurre l’anima umana alla salvezza. Il fine è la liberazione ultima dai mali della vita corporale. A questa concezione spiritualista si oppone una concezione cosmologica della salvezza, che ritiene che non solo l’anima umana, ma anche il corpo umano e il mondo materiale nel loro insieme sono destinati alla salvezza. Tale atteggiamento appare già nell’apostolo Paolo, che afferma che la creazione “entrerà nella gloriosa libertà dei figli di Dio” (Romani 8,21).

Sul piano cosmologico il profetismo postmoderno mira così a ricucire la scissione tra la vita spirituale e la vita materiale. Avvertiamo come la problematica ecologica riguardi da vicino la teologia: insistendo sul rapporto con l’immanenza e le realtà terrestri il profetismo ecologico mette in discussione l’ossessione cristiana per lo spirituale, l’immateriale, il piano intellettuale, la rivelazione in opposizione al mondo concreto, alla vita corporale, all’approccio scientifico al mondo. Una salvezza extramondana, che libera l’anima dalle tensioni del mondo, si oppone a una concezione ecologica della salvezza, che passa per la capacità dell’umanità a gestire lo spazio planetario minacciato dallo sfruttamento. Ma se l’ecologia interroga la teologia, vale anche il contrario. Sacralizzare troppo la natura porta ad una impasse che ridà il suo giusto valore a una parte di spiritualismo. La teologia rammenterà che non tutto l’essere umano è natura, essendo stato chiamato da Dio “da prima della creazione del mondo” (Efesini 1,4) a una coscienza responsabile, che impedisce alla filosofia ecologista di erigere la biosfera a principio omninglobante.
Il piano filosofico: la teologia tra esperienza e dottrinaLa prospettiva storica che abbiamo delineato ci ha condotti dal profetismo fondativo della Riforma alle ortodossie protestanti, poi al loro impantanamento e alla risposta delle teologie liberali, poi trasfigurate nei nuovi profetismi postmoderni. Questa evoluzione sottolinea lo stretto legame che esiste tra le esperienze religiose e le dottrine che ad ogni epoca le corrispondono. Se è corretto affermare che l’esperienza della fede non può essere perfettamente tradotta in nessuna dottrina, è anche del tutto corretto affermare che questa esperienza non è mai interamente indipendente da una dottrina. La ragione profonda dell’onnipresenza delle dottrine nell’esperienza religiosa è legata al fatto che nelle condizioni presenti di vita non vi è mai un’esperienza pura, slegata da ogni forma di interpretazione simbolica. Questo scoglio è così imponente che un’affermazione come “la verità è al di là di ogni dottrina” rimane sempre una dottrina e quindi contraddice se stessa.

Nel passato certe correnti teologiche liberali hanno valorizzato sia l’esperienza religiosa priva di dottrina, pura mistica senza dogmi, sia al contrario la pura razionalità del discorso teologico slegato da ogni pratica spirituale. Evitando ogni unilateralità, l’epoca presente richiede, a mio avviso, un approccio equilibrato dei rapporti tra l’esperienza religiosa e la dottrina teologica. Sul piano della filosofia della religione il profetismo postmoderno potrebbe quindi far valere il seguente assioma: “Non c’è mai esperienza religiosa che non sia legata a una dottrina, e non c’è mai dottrina teologica che non corrisponda a una esperienza religiosa”. Se noi diciamo per esempio “Dio è amore” si tratta di una dottrina teologica che contribuisce a suscitare in noi la rassicurante esperienza spirituale della fiducia infinita in Dio.

L’espressione “Gesù Cristo”, senza la quale il cristianesimo perde la sua sostanza, è un’abbreviazione della frase “L’uomo Gesù è il Cristo”, frase che a sua volta, per essere resa più comprensibile, può essere così sviluppata: “L’uomo Gesù è colui sul quale Dio ha posto il suo Spirito con il potere di fare del bene a coloro che incontrava”. Che sorpresa constatare che questa frase è al tempo stesso una dottrina e il racconto condensato di una esperienza vissuta, quella dell’incontro del Messia, che può a sua volta essere trasmessa ai lettori del Vangelo. Più precisamente, un’esperienza religiosa fa nascere una dottrina quando diviene un riferimento normativo per altre esperienze religiose.

Così la questione di fondo posta dalle teologie liberali è la seguente: a quali condizioni e in che modo un’esperienza religiosa può divenire un’autorità di riferimento per altre esperienze religiose? Le condizioni mi sembrano essere la capacità di quella autorità di nutrire la vita quotidiana delle donne e degli uomini a cui si rivolge. La vita umana è quindi ineluttabilmente impegnata in una tensione tra il necessario riferimento a un’autorità fondativa (religiosa, culturale, etnica, famigliare etc.) e la ricerca di una sempre maggiore autonomia da parte del credente. Tanto la dipendenza assoluta quanto l’autonomia radicale sono impensabili nelle condizioni della vita sociale. È questo equilibrio instabile tra l’inscriversi in una tradizione e il libero rinnovarsi della fede che le teologie liberali ricercano continuamente.

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