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Al giardino della resurrezione: la tentazione di Maria Giovanni 20,11-18

L’avvenimento fondativo del cristianesimo si regge sulla parola “resurrezione”. Dire che la potenza di Dio sorpassa quelle della morte, dire che colui che è stato crocefisso non è stato inghiottito dalla morte, dire che è vivo e che, attraverso questa vita sorta dalla morte, viene rinnovato il senso dell’esistenza dei credenti, questa confessione si fa racconto attraverso una esperienza umana.

Il vangelo di Giovanni mette in scena una di queste esperienze con la figura di Maria di Magdala: una donna in un giardino, che cerca il corpo di un morto e incontra un vivo. Qualche parola e qualche immagine bastano a evocare l’Eden: un primo giorno, un giardino, un uomo-giardiniere (ché tale era la missione dell’essere umano nell’Eden), una donna nominata dall’uomo, la necessità di abbandonare il giardino. Che ne è allora del serpente e della tentazione che spinge l’uomo e la donna a mangiare il frutto dell’albero proibito?

Maria di Magdala è arrivata nel giardino scossa dal dolore, perduta nel fascino della morte. Vuole mettere la mano sul corpo di Gesù, trovarlo, prenderlo, custodirlo. Colui che lei crede essere un giardiniere e che è il Resuscitato la strappa alla siderazione della morte e la richiama al presente chiamandola per nome. Ma Maria crede ancora che chi si avvicina a lei sia lo stesso che ella conosceva e che è stato crocefisso. Il suo slancio verso di lui si riassume in una parola: Rabbunì, che vuol dire Maestro. Qualche parola di Gesù spezza allora questo slancio: non toccarmi o non trattenermi. Con questo verbo è interrotto il desiderio di Maria di trattenere colui che è lì perché non scompaia più, il suo desiderio di trattenerlo per ritrovare il passato con Gesù. Ma il corpo del Resuscitato non è da toccare, sebbene sia palpabile, come faranno comprendere i racconti dell’incontro con Tommaso e del pasto sulla spiaggia. Questo corpo non deve essere toccato da Maria perché il suo desiderio di toccare significa una presa di possesso su ciò che non può essere posseduto.

Toccare/trattenere il corpo, o mangiare il frutto come nell’Eden, è la tentazione di volere altro da ciò che è dato, come limite o come presenza, tentazione che si trova messa in evidenza in Genesi come in Giovanni, con il suo rischio e la sua efficacia potenziale. Non c’è bisogno di un serpente nel giardino della resurrezione; il desiderio umano di appropriazione dell’altro passa per i sensi umani: vedere, toccare, gustare, in una interiorità inestirpabile, profonda, segreta. Che la tentazione sia così vicina alla rivelazione, così vicina al riconoscimento del Vivente, così vicina alla confessione di fede non deve sorprendere il lettore dei vangeli: il racconto della tentazione di Gesù segue immediatamente quello del suo battesimo, e Pietro, il discepolo che segue Gesù da vicino, rifiuta di accettare che il Cristo debba soffrire e morire… Lo slancio della fede porta intrinsecamente in sé la possibilità di un “troppo” o di un “non abbastanza” che potrebbe fargli mancare l’obiettivo.

Toccare o trattenere, o mangiare, la dimensione corporale affermata e assunta dal verbo e dalla messa in scena della tentazione focalizza l’attenzione sul corpo dell’altro. Quello del Resuscitato non può essere toccato, né da Maria, né da alcuno dei discepoli che leggono il vangelo. Ma questa stessa dimensione corporale è divenuta simbolo dell’amore reciproco al quale i discepoli sono stati chiamati dal gesto della lavanda dei piedi. La missione affidata a Maria vicino ai discepoli divenuti dei fratelli attraverso quello che Gesù ha fatto lavando loro i piedi, indica in quale maniera la tentazione può essere rovesciata, come il toccare può passare dal significato di appropriazione a quello di servizio, e come la Buona Novella della resurrezione si fa così carico del corpo dei vivi.

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