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La medicina di fronte al dolore: storia, dottrine, ambiguità

 È tuttavia una cosa che l’esperienza comune tende a smentire. Può esserci una morte quasi silenziosa, come delle bazzecole che però sono delle torture. Il dolore è quindi un messaggero impreciso, e la sua finalità resta nascosta. Il nostro sistema nervoso dà l’allarme senza illuminarci sulla reale gravità del danno. Il nostro rimedio sarebbe allora di ingannare questo ingannatore. I medici che, anche oggi, possono essere talvolta sviati da questi equivoci, hanno avuto a lungo, sul dolore, l’arte di ingannare anche noi. Il fatto è che il dolore altrui era, per loro come per noi, abbastanza sopportabile. Nell’altro, il dolore può sembrare più o meno simulato, una cosa di cui si può dubitare facilmente. “Stai esagerando”. Giudichiamo con facilità. Il dolore, chi non lo prova ne ha un’idea del tutto astratta. Per chi soffre le cose vanno meno bene, perché la cosa è evidente. Il mio dolore è irrefutabile. Un essere installato in me mi tortura, un essere che è altro da me e che sono io. Mi attraversa tutto; contamina tutto. Ma nessuna parola sa descrivere o tradurre quello che mi fa subire. La conoscenza che ho del mio dolore, per quanto intima sia, non arriva per nulla a intaccarlo, non lo compensa né lo vince. Conoscenza fallace, quindi inutile. Ecco perché le persone oppresse dalla sofferenza possono arrivare a preferire la morte: annullare se stessi per annientare quell’altro sé. Poiché, come si esprime giustamente il filosofo Alain (Propos, 1926), il dolore ci chiude, ci fa rinchiudere in noi stessi; spegne l’avvenire, immobilizzandoci nella crudeltà di un presente infinito. Ci si identifica con il dolore. Attraverso il dolore, come dice Alain, “la coscienza è come triturata in piccoli brani”.
Silenzio e urlaAffrontare la storia della medicina del dolore ci porta così su un terreno in cui si rivela subito una vera ambiguità di fatti, di uomini, di parole.

L’abbondante letteratura medica, da più di duemila anni, evidenzia la presenza universale del dolore. Su questo argomento, tuttavia, queste migliaia di pagine costruiscono al tempo stesso come un silenzio spesso, interminabile, incredibilmente ciarliero.

Andiamo indietro nel tempo. Sull’ambivalenza dei fatti, seguiamo il Fedone di Platone. Socrate, massaggiando allegramente la gamba indolenzita dai ferri che gli hanno appena levato, già si interroga sulla sconcertante prossimità della sensazione di dolore e quella del piacere.

Questo per quanto riguarda l’ambiguità. Ora, il silenzio. Al tempo di Augusto, Celso [II secolo] scriveva: “Risoluto a guarire colui che si affida alle sue cure, il chirurgo deve restare sordo alle urla del suo paziente, deve completare la sua opera senza lasciarsi commuovere dai suoi gemiti.”

Il vero chirurgo deve ignorare ogni emozione. Non sentire nulla. Urla e silenzio.

Eppure, del dolore ciascuno parla. In noi esiste una percezione sensibile di ciò che è il dolore, che veglia acquattato nella nostra carne. È certamente questo che fa sì che al dolore – il nostro, quello degli altri – noi siamo sempre, nostro malgrado, ricondotti. Ne testimonia il medico Louis Dartigues, che all’inizio del secolo scorso lo intendeva così: “Se noi fossimo sospesi nello spazio e sentissimo salire verso di noi il rumore della Terra che gira sul suo asse, il suono fondamentale che percepiremmo sarebbe un grido di sofferenza”. (Il Dolore in chirurgia, 1925)

Ancora le urla, e la nostra siderazione. Poiché se si può, da lontano, parlare del dolore, della sua inesauribile produzione, è chiaro che nel momento in cui esso ci affronta, come soggetti o come testimoni, la parola ci viene a mancare. Nessuna parola esaurisce il dolore, nessuna lo può descrivere. Chi lo prova è solo con il dolore. Eccolo, da sempre, il tormento dei medici. Ecco cosa li ha fatti scrivere così tanto sull’argomento, non mancando mai tuttavia di evitarlo – forse al fine di farlo meglio dimenticare; di spegnerlo.

Questo per dire che la storia concreta della medicina in azione non fa che evitare, che annega l’indicibile nello sproloquio e nasconde l’esperienza crudele sotto il mantello dell’oblio? Sì e no.
I- Alleviare. SopportareRitroveremo all’opera questo potere di elisione. Ma prima di tutto rintracciamo come, in mancanza di comprensione, la medicina si sia sforzata di agire, di diminuire il dolore nel concreto.

Fin dalle origini, questa fu una preoccupazione primaria dei medici, una scommessa contro l’impossibile ben formulata dall’adagio ippocratico: “Alleviare il dolore è cosa divina”. Vale a dire che il medico, quando ci riesce, è come un dio. Potente e benefico. Ma l’aforisma significa anche che la sedazione del dolore è il privilegio degli dèi. L’uomo fa quel che può.

I medici dell’Antichità disponevano di risorse, in particolare di una buona conoscenza delle sostanze naturali che provocano il sonno e placano il dolore. Prima fra tutte la mandragora, abbondante nei paesi mediterranei. La collezione ippocratica ne vanta le proprietà sedative (decotto di foglie e radici). La Scuola di Cnido la utilizza per le operazioni chirurgiche, cotta nel vino. Di questa preparazione Dioscoride somministra una dracma (3,5 grammi) per ottenere un sonno anestetico di tre ore. Per preparare il paziente alle operazioni chirurgiche si usavano dei composti di diverse piante: ancora mandragora, papavero e giusquiamo, in associazione con la mirra o la cicuta. Ancora nel IV secolo Lucio Apuleio attesta vere operazioni sotto narcosi: “L’arto potrà essere tagliato senza alcun dolore né sensazione”.

Abbiamo allora il diritto di interrogarci sull’abbandono progressivo, nel Medioevo, di questa farmacopea antica. Da una parte, l’azione di queste piante ipnogene fu poco a poco avvertita come legata agli effetti della magia pagana e, a questo titolo, diventa oggetto di disprezzo. È questa caratteristica che fa sì che i santi che ne usano, attraverso esse facciano dei miracoli. Nel loro caso, un’alta virtù cristiana sa convertire le proprietà magiche di queste piante in produzione di miracoli. Bisogna sempre fare attenzione a separare questo impiego in uno spazio sacramentale. Così fecero i monaci di Montecassino, che usavano delle spugne imbevute di una sostanza sonnifera per prendersi cura del dolore degli sfortunati feriti. Gli storici classici della medicina non hanno avuto che disprezzo razionalista per questa medicina monastica dell’alto Medioevo.

Però, tra le mani di medici meno aureolati di santità, queste pratiche apparivano sempre più sospette di stregoneria, tanto che il loro impiego non era senza rischi. Celso e Galeno [II secolo] avevano da molto tempo messo in guardia sul loro dosaggio. Ormai, in caso di incidente mortale, i praticanti laici non erano più protetti dalle leggi né da alcun tipo di sacralità della loro funzione. Ci furono dei terribili castighi.

Altre ragioni ancora hanno fatto rifiutare i narcotici, in funzione, questa volta, delle rappresentazioni simboliche proprie all’universo mentale dell’Occidente medievale, dopo l’età classica, riguardo al dolore e alla morte. Salvo casi eccezionali, ai chirurghi ripugnava ormai operare su un corpo addormentato che presentava tutti i segni della morte. Disagio a lavorare su un assente; come se il dolore inflitto e subito assicurasse il chirurgo della propria efficacia; oppure un nuovo modello di relazione che implica una tonalità più afflittiva. Senza dubbio perché ogni dolore rinvia, in coscienza colpevole e in espiazione, alla Passione del Salvatore. Ed è così che il pensiero medico inaugura una duratura corrente di opinione, che arriva fino al XIX secolo, secondo la quale il dolore, per quanto vivo, cela una grande utilità, sia come segnale forte di un disordine che reclama una terapia, sia come sferzata alle energie vitali. C’è del buono nel dolore. Occasione di mettere qui in luce il dispetto di un notevole medico e chirurgo del 1300, Henri de Mondeville, che serbava delle ricette sedative italiane e orientali, e che, nello stesso spirito, si diceva convinto dei vantaggi di una chirurgia attenta a limitare il più possibile le sofferenze del paziente. Osservava dunque con collera come i malati ormai non credessero all’efficacia di un chirurgo se non infliggeva loro molte sofferenze.

Seguendo il filo di questa evoluzione, ci ritroviamo ai secoli XVI e XVII in presenza di misure formali, emanate dalle autorità mediche e giudiziarie, che proibiscono di privare i malati della sensibilità prima delle operazioni. Le esperienze in questo senso di un chirurgo-barbiere di Troyes, Bailly, provocarono l’indignazione generale dei medici, e in particolare di Gui Patin, che lo fece condannare.

Di modo che non rimasero più che dei franchi tiratori (pretesi stregoni, guaritori o chimici) per esplorare in segreto, ai margini, le virtù attive delle piante e dei minerali. È merito degli alchimisti aver compreso che i principi attivi delle droghe naturali si presentano, allo stato grezzo, in forma impura. Così lavorarono a isolare le sostanze prime. È il caso qui di ricordare la preparazione di un’acqua bianca, chiamata anche vetriolo dolce, realizzata da Raimondo Lullo nel XIII secolo. Paracelso ritrovò il procedimento nel XVI secolo e ne sperimenterà le proprietà, calmanti e narcotiche, sugli animali. Dopo di lui si dimenticò tutto di questa sostanza che, sotto il nome di etere solforico, servirà dopo il 1840 ad iniziare con le prime vere anestesie.

Allora, questi lunghi secoli di rifiuto verso ogni tipo di calmante, perché, e come? Questo ostracismo vigilante, da dove veniva?
II – Il dolore intellettuale: dare un nome al dolore, più che capirloCon una imponente serie di Trattati del dolore, la medicina classica (XVI-XVIII secolo) intraprende una descrizione minuziosa delle forme e dei gradi del dolore. Ma, così conosciuta, valutata, all’interno di un discorso attento e coerente, il dolore reale dei soggetti è al tempo stesso come rivestito di linguaggio. Lo si espone, distribuito in gruppi, classi e parti di un immenso catalogo formale, teorico e retorico; non lo si afferra, cancellato com’è dalle virtù di una dotta orazione. Un vocabolario sontuoso, molto espressivo e precisamente descrittivo; ma questa lingua sembra ormai parlare solo a se stessa.

In questi grandi cataloghi ecco dunque a voi (come per una “classificazione periodica” degli elementi di afflizione) i dolori gravativi, i dolori tensivi, i pulsativi, i pongitivi, ovvero quattro specie principali nelle quali si ripartivano tutte le altre, che non ne erano che dei gradi differenti o delle complicazioni. Seguiva la serie combinatoria dei loro caratteri specifici: dolori lancinanti, gli strazianti, i dilaceranti o ancora i perterebranti. Ce n’è di folgoranti, ce n’è di cocenti. I pruriti sono divisi in diversi gradi, secondo i quali si contentano di dare dei formicolii, oppure che impongano dei pizzicori così intollerabili che il malato si strazia furiosamente il corpo con una sorta di orribile delizia. Ce ne sono di brucianti e di freddi; di contusivi e di schiaccianti; di corrosivi o rodenti.

Per quanto ricercati siano questi repertori, lasciano intatta la concretezza del dolore. Non la raggiungono. La eludono. Celano il dolore nella verbosità. Lo si allevia con riserva, lo si tiene a distanza. Poiché, oltre alla resistenza che il dolore era ben in grado di opporre da se stesso (il meccanismo stesso del dolore sfuggiva alla conoscenza), c’è soprattutto il fatto che veniva riconosciuto come necessario, se non altro come segno. Si insisteva sulla sua natura sintomatica, la sua utile funzione di allarme. E i rari casi di pratica analgesica erano mal recepiti o incompresi. In più, dopo il 1750, il grande movimento del vitalismo che fece in quel momento abbandonare l’ipotesi umorale per il tutto sensitivo, il tutto nervoso (sulla scia del pensiero di Locke [1632-1704] e Condillac [1714-1780] ripreso dalla feconda scuola di Montpellier) ha rafforzato la convinzione di un dolore utile, addirittura necessario, come una strategia di stimolazione per rianimare l’energia vitale di un malato che non riesce a guarire.

Svolte!…

A dire il vero, è proprio del dolore condurre all’evitamento. Il malato che soffre è il primo a fuggire. Incomincia con il dolore un nascondino grazie a delle piccole astuzie, con delle speranze nane, attraverso gli sforzi giganti di una volontà minata, raccogliendosi in se stesso e applicandosi a rimuovere la terribile sensazione. Ritiro fragile. Montaigne sapeva cosa fossero questa abilità di cui si fa uso per “divertire” il male. Non conviene, dice, “urtare (affrontare) i mali a viso aperto: non ne fa [loro] né sostenere né ribattere l’offesa, la si fa [loro] rifiutare o scansare” (Saggi, III, capitolo 4).

È proprio a queste abilità e a queste astuzie che hanno dovuto e potuto ricorrere i medici. Eppure è singolare scoprire a che punto sono volontariamente rimasti.
III – Una lunga resistenzaNiente colpisce di più della durevole tenacità con la quale la maggioranza del corpo medico e l’insieme delle istanze ufficiali della professione in Occidente, in America come in Europa, hanno resistito ad ogni idea di anestesia nelle operazioni chirurgiche (1780-1847), nel momento stesso in cui nuovi prodotti adatti allo scopo venivano scoperti (protossido di azoto, 1776; etere solforico, 1792; morfina, 1806; cloroformio, 1831-1834).

Ciascuna di queste sostanze era stata sperimentata nelle sue proprietà sedative o anestetiche poco dopo la sua scoperta, rispettivamente dall’inglese Davy per il gas d’azoto, Faraday per l’etere, e dal tedesco Sertuerner per la morfina.

Nel proseguimento di questi tentativi, il chirurgo inglese Henry Hickman, con lo scopo di risparmiare agli umani, suoi pazienti, le aspre sofferenze operatorie, sperimentò su degli animali l’applicazione di questi mezzi per realizzare le prime anestesie chirurgiche. La sua scoperta non incontrò che indifferenza da parte delle istanze ufficiali della medicina britannica. Venuto in Francia a sottomettere il suo procedimento al giudizio della nostra Accademia di medicina, nella quale riponeva tutta la sua fiducia, non trovò che reazioni di derisione o di decisa condanna (1828).

Perché questa unanime sordità, una simile rigidezza, perché tutto questo ritardo? Potremmo essere indotti a pensare che la presenza effettiva del dolore era in qualche maniera necessaria a una sorta di sacralità del mestiere medico-chirurgico. È così che addormentare il paziente rendeva ormai inutile l’estremo virtuosismo di velocità e destrezza di cui facevano prova i chirurghi sui corpi operati a vivo, e rovinava una fonte di onore e di gloria a cui tenevano. C’è qui un enigma, che rafforza la maniera in cui l’episodio di questo rifiuto epocale è classicamente occultato nelle Storie della medicina. Un tratto rivelatore delle attitudini in gioco ci è fornito dal celebre chirurgo Velpeau, che tuttavia diventò più tardi un ardente propagatore delle tecniche anestetiche con l’etere. Ma nel 1839 affermava ancora: “Sfuggire al dolore nel corso delle operazioni chirurgiche è un sogno, una chimera che non è più permesso carezzare ai nostri giorni. Strumento tagliente e dolore, in medicina operatoria, sono due parole che non si presentano mai l’una senza l’altra alla mente dei malati, e di cui bisogna necessariamente ammettere l’associazione”. (Nuovi Elementi di medicina operatoria, 1839)

Non si possono comparare il tranchant di questa condanna apparentemente definitiva, e le sconfitte reali che la motivavano. Certo, degli incidenti e anche alcuni decessi si erano verificati nel corso di certi esperimenti. Ma, confrontando i fatti, mai gli incidenti causati dall’inoculazione del vaiolo nel XVIII secolo né, dopo il 1800, quelli della vaccinazione, avevano rimesso in discussione così radicalmente queste pratiche da parte di una eminente figura accademica.

Nel caso delle anestesie, come ci si è presto accorti, tutto stava normalmente nella messa a punto dei dosaggi equilibrati. Bisognava quindi solo trovare degli aggiustamenti, ed è proprio ciò che si fece in seguito.
Un’etica della coscienza risvegliataCi sarebbe da dire sull’importanza che una durevole filosofia attribuiva alla necessità, per la persona umana, di vivere le grandi prove della vita in piena lucidità. La perdita di coscienza nell’anestesia generale appariva allora inaccettabile. In nome della dignità della persona, un autentico erudito come Magendie (il maestro di Claude Bernard [ambedue celeberrimi medici del XIX secolo n.d.t.]) non ha mai mutato il suo rifiuto di ammettere la pratica dell’anestesia: “La perdita di coscienza, dichiara, è qualche cosa di degradante e di avvilente che ogni uomo un po’ coraggioso non potrebbe soffrire.” Qualche settimana più tardi aggiunge: “Ciò che vedo molto chiaro in questi racconti, è che con l’intento lodevole, senza dubbio, di operare senza dolore, inebriano i loro pazienti al punto da ridurli allo stato di cadaveri, mozzati e tagliati impunemente e senza alcuna sofferenza […] Ecco cosa non è morale, perché non abbiamo il diritto di fare esperimenti sui nostri simili.” (Rendiconti dell’Accademia delle Scienze, 1847)

Tagliare impunemente tuttavia si faceva da sempre, con sofferenze enormi! Cosa significava quindi tale drammatizzazione e questa negazione da parte dei medici delle prospettive così feconde che si aprivano? Cosa si stava difendendo? Erano quelle operazioni chirurgiche di cui ricordo le circostanze atroci: i pazienti attaccati alla tavola o al sedile, attanagliati dalla paura molto prima del momento fatidico, le loro urla durante i minuti, per loro interminabili, delle operazioni?

La crudeltà di queste cerimonie sembra non soddisfacesse chi le praticava. E allora perché ci tenevano tanto? Propongo l’ipotesi che fosse la drammaturgia di queste scene terribili che essi amavano. Erano delle lotte che soddisfacevano il loro amor proprio. Se si trattava, in medicina propriamente detta, dei dolori specifici legati a delle affezioni come la litiasi e la calcolosi, o i tumori, il medico ingaggiava con il dolore un rapporto di accostamento fatto essenzialmente di astuzia, che valorizzava il suo talento strategico, la sua arte della finta, la sua capacità di sovvertire le percezioni del malato sofferente. Erano degli esercizi fortunati dell’intelligenza combinatoria. Nelle grandi operazioni chirurgiche il medico conosceva la fierezza di un combattimento eroico. Una battaglia il cui campo era il corpo del malato, con il male per avversario.

Su questo teatro, il vero sconosciuto, il grande assente, è il malato, sofferente, urlante, ma annullato, completamente oscurato dall’oblio. Non c’è spazio, di diritto, che per il chirurgo; è lui l’eroe. Il dolore era la cosa che lo obbligava a dare prova delle qualità più brillanti: l’estremo virtuosismo, la sorprendente rapidità. E, prima di tutto, il sangue freddo. Lo testimonia un contemporaneo dell’illustre chirurgo Dupuytren: “Soprattutto non [lo] incriminiamo per questo dono dell’impassibilità che fece di lui il primo chirurgo del suo tempo. Senza questa forza d’animo, questo disprezzo del sangue umano, questa profonda indifferenza del dolore e delle sue rumorose testimonianze, non esiste autentico chirurgo.” (I. Bourdon, Medici illustri, 1844)

L’anestesia operatoria era la fine di quelle drammaturgie eroiche. Tuttavia, le istituzioni accademiche finirono per cedere, facendosi presto un punto d’onore nel sostenere l’eclatante avanzata delle tecniche chirurgiche, e nell’appoggiare lo sviluppo della specialità di anestesia-rianimazione. Importanti progressi caratterizzano ormai il campo della neurobiologia del dolore.

E oggi, negli ultimi cinque o sei decenni?
IV- Una disattenzione persistente?Ecco che uno sguardo rivolto sulla pratica ospedaliera recente suggerisce l’ipotesi di una continuità di certe forme di insensibilità, di certi comportamenti. Testimonianze:

Il dottor Bensoussan, psichiatra infantile, parla dei suoi primi anni di pratica ospedaliera: “In rianimazione neonatale non sentivo mai parlare di dolore. Certo, si diceva, un cervello aveva sofferto, un rene, un apparato respiratorio. Ma, per quanto mi sforzi di ricordare, non ho mai sentito evocare la sofferenza di un bebè. Tenevamo il silenzio su queste sofferenze. Occorreva agire, e questa presenza nella realtà ci rendeva sovente assenti per il bebè. Tutti i nostri gesti potevano essere dolorosi per loro. Noi non potevamo pensarlo. Noi li curavamo, noi li salvavamo. E ci rendevamo ciechi. È insopportabile un bebè che soffre, un bebè che muore. Allora, c’è voluto del tempo, ce ne vorrà sicuramente ancora, perché queste sofferenze noi le constatiamo, le accettiamo,le alleviamo.” (“Per farla finita con il dolore dei bambini” – Enciclopedia medico-chirurgica, 1983)

Nel primo capitolo di un bel libro in cui ripercorre la sua carriera (Il bambino messaggero, 1992), il professor Daniel Alagille ricorda come, nei suoi primi anni in chirurgia pediatrica, si operava la stenosi al piloro dei neonati senza anestesia. La metà dei piccoli moriva di choc operatorio, per il dolore intenso. Il giovane medico era abbattuto. Protestò. Ma lo richiamarono alla ragione: il dogma affermato stabiliva che i lattanti non avvertono dolore.

Momento notevole di una presa di coscienza. In quel momento, leggendari giudizi aprioristici sono precipitati. Si scopriva un’evidenza, essa stessa dolorosa. In due generazioni si è delineato un progressivo mutamento delle idee, delle condotte. È nata una corrente totalmente nuova di ricerche sulla biologia del dolore e delle sue occorrenze. Nei luoghi di cura, numerose misure tanto amministrative che professionali tendono a risvegliare l’attenzione, a raccomandare gesti protettori.

Questa assunzione di una nuova medicina del dolore riflette una profonda mutazione del pensiero medico, che del resto ha delle ripercussioni sui modelli sociali circostanti di sensibilità al dolore. Contano, in questa evoluzione, l’approfondimento dei valori della relazione di sostegno, da medico a malato, e il riconoscimento da parte del curante dell’unione inscindibile, nella persona del paziente, del corporeo e dello psichico. Tutta un’etica ospedaliera è stata fondata lì, attorno e al contrario degli schemi di condotta precedenti, anche se la realtà quotidiana lascia ancora a desiderare.

In troppi luoghi in effetti, la vita quotidiana degli ospedali, a causa dei carichi di lavoro sempre più pesanti, è lungi dall’avere veramente sradicato questi fenomeni. Non rari restano i casi in cui l’attenzione portata al dolore di un malato può diminuire; in cui l’esecuzione di una cura potenzialmente dolorosa si fa nella fretta, senza precauzione. Qui e là sembra fare capolino una continuità di comportamento, una reticenza a fare uso dei mezzi di attenuare i dolori vivi.

Peggio! Sopravvive ancora nella nostra tradizione, all’occasione, l’idea del dolore come maturazione, con un valore iniziatico. Certe ambiguità fanno pensare che le asprezze quasi istituzionali dello spirito clinico, nel suo rapporto con la patologia, non sono del tutto spente. Anche oggi, mentre una autentica presa di coscienza ha prodotto all’interno del mondo ospedaliero un grande rovesciamento dei valori e delle pratiche, questa questione delle resistenze o dei disconoscimenti è da porre con decisione. Essa concerne tutto il tessuto della nostra cultura. L’augurio è che possiamo, nel vasto campo delle cure, vedere imporsi con forza il senso acuto dell’attenzione.

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