La pastorale dell’amore, divenuta abbastanza comune e certamente preferibile alla più antica pastorale della paura e del castigo, manca di credibilità e ha stancato. Essa ci considera dei bambini che hanno un assoluto bisogno di essere amati e di sentire amore perché acquistino fiducia in se stessi e amino la vita. Tale bisogno è effettivamente vitale, e felici sono coloro che dalla più tenera età e a lungo ne sono stati colmati.
Ma come non riconoscere al tempo stesso che dicendo “Dio Padre” e presumendoci i suoi figli prediletti, noi utilizziamo una metafora? Noi proiettiamo lo schema delle strutture ideali della genitorialità (quali le concepiamo nella nostra civiltà) sullo schema teologico giudaico-cristiano dell’”alleanza” tra Dio e gli uomini (tutti gli uomini o solamente gli eletti?). Ci fissiamo su rappresentazioni antropomorfiche che soffocano le proteste della ragione.
Io non riesco a capire attraverso l’intelligenza (e a dire il vero nemmeno attraverso la grazia) come Dio il creatore sia amore totale e agente. Capirei meglio se si dicesse, capovolgendo l’equazione, che l’amore è Dio, scintilla divina in noi, Dio all’opera all’interno dell’umanità, e che la vita di Gesù ce ne consegna una figura esemplare, paradigmatica. Ciò che basta a fondarvi un’etica e ad avvolgerla in una religione.
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