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Dov’è Dio?

Dio non c’èSì, che fa Dio, dove si trova? Tale può essere la domanda, terribilmente angosciosa, disperata, delle donne e degli uomini per cui il Cielo è vuoto e Dio è un Dio assente. Che si tratti di vittime della guerra, dell’ingiustizia, della fame nel mondo, degli spaventosi cataclismi naturali, di un lutto sentito come ingiusto e crudele… “Dov’è Dio, cosa fa?”. Ecco anche le parole, il sospiro di tanti malati che soffrono nella solitudine e nel silenzio di un ospedale. E questa domanda non è magari stata la nostra in quel giorno, in quel momento molto doloroso della nostra vita? Ce la siamo posta arrivando a chiederci “Dio esiste veramente?” Abbiamo magari anche fatto nostro il grido di Gesù sulla croce: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?” (Marco 15,34). Questo grido non è in verità quello della disperazione, perché si rivolge ancora a Dio, ma è per Gesù, come per noi, quello di un autentico sconforto umano.

Quante volte nei campi della morte questo lamento è salito alle labbra delle vittime dell’orrore: “Dov’è Dio?”! C’è un alessandrino di Alfred de Vigny che evoca, nel Getsemani, quel silenzio assoluto che solo risponde all’appello di Gesù che si rivolge a suo Padre: “Ma il cielo resta buio, e Dio non risponde” (“Il Monte degli Olivi”, I destini, Garzanti). Chi può ancora senz’altro dire “Dio”, come se niente fosse dopo Auschwitz e Buchenwald? La romanziera inglese Virginia Woolf (1882-1941) scrive queste parole ironiche: “C’è qualcosa di indecente in colui che, seduto presso il fuoco, crede in Dio”.

Dov’è Dio? Si trova nei nostri appelli, nel nostro cercare, nelle nostre urla di rivolta, i nostri anatemi, i nostri dubbi, le nostre bestemmie, persino nel nostro ateismo. Penso al titolo di un ammirabile libretto di una cinquantina di pagine del pastore Roland de Pury, che partecipò alla resistenza e venne imprigionato, “Giobbe l’uomo in rivolta” (Claudiana, 1962). Dopo aver affermato che Dio attesta la verità delle proteste, dei lamenti e della rivolta di Giobbe, Roland de Pury scrive: “Quando ritornano alla mente la straordinaria violenza del grido di Giobbe e la sua requisitoria che brandisce impietosamente tutti gli argomenti dell’ateismo, di fronte alle parole così spesso edificanti, così profondamente religiose, così adatte a giustificare Dio dei suoi amici, non si può allora non pensare che Dio si trova più spesso al fianco di chi lo attacca che al fianco di chi lo difende, e che ci sono certamente degli atei più vicini alla verità cristiana di un buon numero di apologeti cristiani. Che ci sono delle persone in rivolta che Dio preferisce alla gente remissiva delle sue Chiese, e degli infelici che gridano nella loro angoscia e nella loro nudità che testimoniano di lui in maniera più valida degli avvocati troppo sicuri del fatto loro.”

Si potrebbe scrivere un altro libro intitolato “Gesù o l’uomo in rivolta”. Si potrebbe anche scrivere un voluminoso libro intitolato “Dio o il Dio in rivolta”. Qui si tratterebbe di quel Dio che, in Gesù, lotta al nostro fianco in una rivolta non già negativa o nichilista, ma positiva, costruttiva e creatrice, per far trionfare la vita a cui senza sosta si oppongono le potenze di morte, quelle della malattia, del male, della sofferenza, delle ingiustizie, della morte. Questo Dio dei vangeli non è certamente il Dio “onnipotente” delle nostre fantasie. Mi ritorna in mente Théodore Monod che amava citare suo padre, il pastore Wilfred Monod: “Dio non ci protegge dal fulmine, ma è con noi quando veniamo abbattuti dal fulmine”. La fede, come ripeteva spesso W. Monod, è un “tuttavia”. Lo stesso Dio è un tuttavia, come ribadiva il titolo del suo ultimo libro, apparso appena dopo la sua morte: “Quand même ! Le vrai nom de la divinité chrétienne” (Tuttavia! Il vero nome della divinità cristiana).

Il teologo cattolico contemporaneo Maurice Bellet, le cui opere sono caratterizzate da una bella e intensa dimensione poetica, ha scritto: “Il solo Dio che possiamo ormai sopportare non è il Dio delle altezze, è il Dio che è con noi nelle tenebre. Se Dio è, è nell’uomo quel punto di luce che nulla ha il potere di distruggere” («Non sono venuto a portare pace…» Saggio sulla violenza assoluta, Edizioni Messaggero, 2012).
Dio è in CieloDov’è Dio? Molte risposte sono state date a questa domanda. Mi sembra il caso di ricordarne qualcuna, molto classica. Una di esse afferma che Dio è in Cielo. La preghiera che ci ha lasciato Gesù e trasmessaci dalla tradizione inizia con questa invocazione ben conosciuta: “Padre Nostro che sei nei Cieli”. Ovviamente oggi c’è da demitizzare tale espressione; noi non andiamo più a cercare Dio al di là delle nuvole. Si impone una lettura razionale di questa espressione, in tutta onestà intellettuale. Detto questo, rimane possibile fare sull’argomento tre osservazioni che oltrepassano questa semplice constatazione con la sua evidenza.

In primo luogo, dire di Dio che è in Cielo, per Gesù come per i cristiani durante molti secoli, anche tenendo conto del carattere approssimativo e relativo delle parole umane, non corrispondeva a una immagine e a una maniera poetica di dire le cose. Si trattava di una visione della realtà che postulava molto concretamente un universo a tre piani: la terra, un Cielo in cui risiedeva Dio con la sua corte celeste al di sopra delle nostre teste, al di là delle nubi, e gli “inferi” nel più profondo della terra. La visione del mondo (Weltanshauung) dell’uomo biblico non ha per lo più niente a che vedere con la nostra, anche se possiamo riconoscere che la nostra maniera di esprimerci sarà molto probabilmente anch’essa un giorno superata.

Qui c’è infatti un insegnamento importante: anche noi dovremmo, come hanno fatto quei lontani precursori, accordare il nostro modo di dire Dio con la concezione del mondo attuale quale la possiamo decifrare nell’orizzonte filosofico e scientifico del mondo contemporaneo. È a questo prezzo che potremo dire un Dio non dimostrabile, ma credibile. Ecco un compito al tempo stesso impegnativo, inventivo e meravigliosamente stimolante.

D’altra parte, questo modo di esprimere un Dio “in Cielo” ha un significato profondo che va al di là di una semplice localizzazione. Qui si entra nell’ordine del senso, in quello, positivo e interpretativo, della demitologizzazione, in tedesco Entmytologisierung, secondo il vocabolario del teologo protestante Rudolf Bultmann (1884-1976). Si tratta quindi di andare oltre la tappa, necessaria ma insufficiente, della demitizzazione. La demitologizzazione non va di conseguenza a cancellare quel “in Cielo” e altri passaggi biblici con il pretesto che sono in contraddizione con ciò che la scienza attuale ci insegna dell’universo. Non si può certamente rendere la nostra fede simile allo stampo, fatto di contesti e di concezioni culturali, nel quale è stata colata. Questo stampo infatti non ha di per sé niente di specificamente evangelico e cristiano.

In tale prospettiva la demitologizzazione non è in primo luogo, né soprattutto, né essenzialmente, un’esigenza della modernità, ma piuttosto un’istanza della fede stessa. Cercheremo infatti non solo di tradurre quei dati obsoleti e a esprimerli, per quanto possibile, nelle nostre rappresentazioni moderne, ma di considerare il loro significato nell’ordine della fede: non si tratta – e questo è vero per ogni testo biblico – di vedere solo quello che dice il testo, ma anche e soprattutto quello che vuole dire, e a noi in particolare. Affermare che Dio è in Cielo significa in realtà riconoscere che non possiamo raggiungere Dio da soli, che egli ci sorpassa infinitamente, che non possiamo imprigionarlo in parole, definizioni, dottrine, per quanto siano belle e profonde: Dio è la Trascendenza. Questo è vero ieri come oggi, quale che sia la nostra maniera di voler esprimere Dio e di cercare dove si trova.

Infine, l’invocazione “Padre Nostro che sei nei Cieli” ha qualcosa di magnificamente paradossale, di contraddittorio. Vi si dice, da una parte, che Dio è lontano e inaccessibile, in Cielo, e che però è vicino a noi, “Padre nostro”. Questa tensione dinamica con quelle due affermazioni opposte, assomiglia a due pietre sfregate l’una contro l’altra per farne scaturire scintille, fuoco e luce.
Dio è nella naturaDire che dio risiede nella natura corrisponde a un panteismo più o meno radicale, secondo il quale Dio si identifica largamente con il mondo ed è presente ovunque in esso. Il panteismo è molto diversificato e sfaccettato, può trattarsi di quello degli stoici, di Plotino (c. 203-c. 270), di Spinoza (1632-1677) o di Hegel (1770-1831), per non citare che questi.

Certamente per molti la bellezza della natura e di alcuni dei suoi paesaggi induce chi li contempla a vedervi come un riflesso della gloria divina e dell’amore del Dio creatore. Questo tuttavia non dovrebbe condurre a una sorta di adorazione e a un culto della natura. Quest’ultima è in effetti caratterizzata dalla legge della giungla, ovvero la legge del più forte. La natura d’altra parte impiega altrettanta ingegnosità a suscitare la vita che a distruggerla. La vita si nutre della morte degli altri, che si tratti di quella degli animali o di quella altrettanto prodigiosa dei vegetali.

Il pastore Wilfred Monod (1867-1943), ossessionato da questa crudele verità, diceva che il leone è in definitiva composto dalla gazzella digerita, che la natura è un immenso tubo digerente. Mostrava molto spesso questa tragica e universale realtà nelle sue predicazioni, giungendo a evocare il sanguinario mangiarsi l’un l’altro perfino nel fondo degli oceani. Una tale realtà non ci fa dubitare di una certa immagine del Dio creatore? Il Dio d’amore ha veramente voluto una simile macchina infernale, questo meccanismo impietoso secondo il quale la vita umana e animale offre ai nostri occhi un implacabile massacro senza il quale sembra non poter esistere?

La questione che qui pongo può parere provocatoria o blasfema agli occhi di alcuni. Fortunatamente sono in buona compagnia. Albert Schweitzer (1865-1975) scrive in un testo che risale al 1922: “Noi guardiamo in faccia il terribile enigma che il mondo per noi rappresenta e lottiamo per non dubitare di Dio. Osiamo riconoscere che le forze che agiscono nel mondo sono, sotto molti riguardi, molto diverse da quello che ci aspetteremmo da parte di un Creatore buono e perfetto. […] La religione non è la conoscenza del divino rivelata attraverso l’osservazione della natura. […] L’enigma della religione è che il Dio che percepiamo in noi stessi è diverso dal Dio rivelato dalla natura.” (Le religioni mondiali e il cristianesimo). La natura non dovrebbe essere divinizzata.

Detto questo, “il dinamismo creatore di Dio” (vedere a questo proposito: André Gounelle, Le dynamisme créateur de Dieu. Essai sur la théologie du Process, Van Dieren Éditeur, 2000 [Il dinamismo creatore di Dio. Saggio sulla teologia del Processo] ) attraversa la natura, il nostro mondo e le nostre vite per sovrastare le forze distruttive. Certamente Dio non è estraneo alla creazione e se tra il mondo e lui non è possibile una identificazione, c’è però una parentela. Infatti, se Dio è in tutto, non per questo egli è tutto. Sarebbe allora più giusto passare dal panteismo (Dio è in tutto) al panenteismo (tutto è in Dio). Tutto infatti trova il suo fondamento in Dio, è radicato in lui, la cui energia creatrice ci anima e sostiene.
Dio è nei luoghi sacriL’affermazione secondo la quale Dio abita in luoghi sacri può apparire, oggi, elementare e sorpassata, tuttavia attraversa tutte le religioni e la loro storia ed rimane ancora molto attuale. Dio risiede nei templi – templi egizi, greci, romani, il tempio di Gerusalemme, per esempio -; il salmista evocato al principio di questo articolo rimpiange l’epoca in cui ci si poteva recare nella “casa di Dio” (Salmo 42,4), appellativo tanto discutibile quanto frequente nella Bibbia! Calvino, nel XVI secolo, volle che i templi fossero chiusi fuori dagli orari del culto, perché si era diffusa l’abitudine di compiere delle devozioni andando da una chiesa all’altra e, nelle chiese, da una cappella all’altra, con la convinzione che le preghiere sarebbero state più efficaci e meglio esaudite se fossero state fatte in luoghi sacri abitati dalla presenza divina.

Un pastore mi raccontò di avere concelebrato con un parroco, in una celebrazione ecumenica, un matrimonio religioso in una chiesa di provincia. Data la configurazione del luogo, questo collega era obbligato, nel corso della cerimonia, a passare davanti al tabernacolo, quell’armadietto chiuso a chiave contenente il ciborio e le ostie consacrate, ricettacolo della presenza reale di Dio in Gesù Cristo. Il tabernacolo è d’altronde spesso segnalato da una piccola lampada rossa. Il pastore, preoccupandosi fraternamente e legittimamente di non scandalizzare nessuno, si chiedeva se dovesse raccogliersi davanti a quel tabernacolo, o fermarcisi davanti, chinare la testa, per esempio. Dopo aver posto la domanda al sacerdote, vide quest’ultimo spegnere il piccolo lume e dirgli: “Signor pastore, ho spento la presenza reale!” e il nostro collega gli rispose: “Almeno ci resterà quella della Parola.”

Presenza reale? Dobbiamo richiamare con molta precisione cosa significa. In un libro di Philippe Martin consacrato alla storia della messa, troviamo nel cuore dell’opera delle illustrazioni significative e molto ben scelte, di cui una, risalente alla metà del XX secolo, rappresenta delle vignette destinate ai bambini. Una di queste immagini mostra una bambina e un bambino inginocchiati davanti all’altare con il sacerdote che dà loro l’ostia. Sta scritto sull’immagine: “L’Eucarestia contiene veramente, realmente e sostanzialmente il Corpo, il Sangue, l’Anima e la divinità di Gesù Cristo.” (Le théâtre divin. Une histoire de la messe du XVIe au XXe siècle, CNRS Éditions, 2010 [Il teatro divino. Storia della messa dal XVI al XX secolo])

Il pane e il vino della Cena non contengono, per i protestanti, la presenza divina attraverso il corpo e il sangue di Gesù Cristo. Dio non si trova lì, anche se noi crediamo alla presenza di Gesù nel nostro cuore, nella vita e nel mondo. Nemmeno la Bibbia contiene, per una sorta di antitesi protestante, la presenza di Dio che potremmo identificare con la lettera delle Scritture. Con la preghiera di illuminazione, che precede la lettura della Bibbia dal pulpito, noi chiediamo a Dio di illuminarci con il suo Spirito per farci ascoltare la sua Parola attraverso dei testi evidentemente, e talvolta pesantemente, umani. Il predicatore di conseguenza non dovrebbe dire, come fa talvolta: “Ora leggeremo la Parola di Dio”.

Allo stesso modo, al momento della comunione, si indirizza a Dio una preghiera (epiclesi) chiedendogli il suo Spirito per permetterci di vivere, con questo sacramento, qualcosa che non sia un semplice pic-nic liturgico. Dio non è nella Bibbia, nel pane e nel vino della Cena. E il tavolo della comunione non è un altare sul quale si celebra un sacrificio. Noi non possiamo racchiudere Dio. Ecco una tentazione costante di tutte le religioni. Detto questo, riconosco volentieri che le chiese possono essere dei luoghi propizi al raccoglimento, alla preghiera, alla meditazione. Non sono però dei luoghi sacri. Il protestantesimo, in una sorta di terremoto al tempo stesso culturale, sociale e politico, ha proceduto a una triplice desacralizzazione: dei luoghi, dei tempi e delle persone (sacerdozio universale). Il sacro infatti rifluisce integralmente nell’Eterno: “Soli Deo gloria!” (A Dio solo la gloria!) Ecco il motto unanime dei protestanti.
Un Dio inattesoRaphaël Picon – decano della libera facoltà di teologia protestante di Parigi e capo redattore di Évangile et liberté – con il quale discutevo dell’argomento del presente articolo, mi disse che “Dio non è da nessuna parte, ma è potenzialmente dappertutto”. È un altro modo di dire quello che ha scritto Maurice Zundel (1897-1975): “Dio c’è sempre; siamo noi ad essere assenti.”? (« Le chrétien en mission universelle », Le Caire, 1967, in Présence de Maurice Zundel, ottobre 2010, n° 72)

Questo Dio “potenzialmente dappertutto” è proprio quello testimoniato da questa frase di Gesù secondo il vangelo di Matteo: “Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta e, chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo che è nel segreto.” (6,6) Questo versetto è divenuto un testo spesso citato dai protestanti per insistere sull’importanza di una pietà individuale, interiore, intima. Qui troviamo la convinzione della presenza di quel Dio “potenzialmente dappertutto”. Possiamo pensare a un’altra ingiunzione, quella, apparentemente assurda e d eccessiva, di Paolo indirizzata ai Tessalonicesi, che suona: “Non cessate mai di pregare!” (1 Tessalonicesi 5,17). Qui si tratta infatti di una affermazione essenziale per dire che si può pregare ovunque e in qualsiasi luogo. C’è dunque quella notevole desacralizzazione dei luoghi e dei tempi cara ai protestanti e già all’opera nell’Apostolo.

Sto pensando a un altro testo, quello al quale consacrai la mia prima predicazione quando ero ancora studente di teologia all’Università di Losanna. Si tratta del versetto che conclude il famoso “Sogno di Giacobbe” in cui Giacobbe vede una scala che unisce il Cielo e la terra e sulla quale salgono e scendono degli angeli. Dio allora gli si rivolge per fargli la promessa della sua presenza: “Io sono con te […] Io non ti abbandonerò.” (Genesi 28,15) Poi il sogno si conclude con queste parole: “Quando Giacobbe si svegliò dal sonno, disse: «Certo, il SIGNORE è in questo luogo e io non lo sapevo!»” (28,16) Nel mio sermone insistevo su quel “io non lo sapevo” per dire come Dio sia inatteso. Non si trova necessariamente lì dove lo pensiamo e lo vorremmo. Possiamo sentirlo nelle parole di un ateo e non sentirlo in quelle di un teologo cristiano il cui sapere vuole essere conoscenza di Dio. Dopo aver insistito sul fatto che la Parola di Dio non può essere rinchiusa nella predicazione di una Chiesa, che le imporrebbe le sue limitazioni, il teologo svizzero Karl Barth (1886-1968) così scrive: “Dio ci può parlare attraverso un ateo o un pagano, e con questo mezzo farci comprendere che la frontiera tra la Chiesa e il mondo profano passa sempre altrove di dove credevamo.” (Dogmatica)
Dio è in noiLa Bibbia, in modo particolare attraverso il Nuovo Testamento, risponde alla domanda “Dov’è Dio?” affermando che egli è in ogni profeta che fa udire la Parola di Dio, che è ovviamente in Gesù ma anche e soprattutto che è in noi. È Paolo che insiste su questo dichiarando nelle sue Epistole ai Corinzi: “Voi siete il tempio di Dio” (1 Corinzi 3,16) e “Noi siamo il tempio di Dio” (2 Corinzi 6,16). Queste affermazioni sono, sotto molti punti di vista, stra-ordinarie, rivoluzionarie. Paolo aveva infatti sotto gli occhi tanto il tempio di Gerusalemme quanto quello di Corinto in Grecia, luoghi sacri che rappresentano per i loro abitanti la presenza divina per eccellenza. L’Apostolo sconvolge questa maniera di considerare la presenza di Dio tra noi dicendo che questo tempio siamo noi e di conseguenza che Dio risiede in noi. La citazione di Maurice Bellet che ho fatto precedentemente continua del resto con queste parole: “Ecco l’Evangelo: l’annuncio che Dio è nato nell’uomo.”

Tale dichiarazione suscita e determina per noi, o dovrebbe farlo, due conseguenze decisive.

In primo luogo, se Dio è in noi, questa convinzione afferma la nostra dignità. “Noi siamo delle creature senza valore” mi diceva un giorno una parrocchiana uscendo dal culto. No, questo non è vero, le ho risposto, se crediamo che noi siamo il tempio di Dio. Non siamo più ridotti al nulla della nostra condizione mortale e peccatrice. Ogni volta che predico ho davanti a me una citazione del pastore Charles Wagner, fondatore nel 1907 della parrocchia del Foyer de l’Âme a Parigi, che scriveva: “L’uomo è una speranza di Dio.” E non semplicemente e unicamente Dio è una speranza dell’uomo. Queste parole immense che ho sotto gli occhi, questo ribaltamento di prospettiva, mi ricordano che la mia predicazione non dovrebbe sconfortare chi ascolta, ma deve incoraggiarlo, sostenerlo e aiutarlo a vivere.

Il maître à penser del giovane Marx, in particolare per quanto riguarda le questioni religiose, Ludwig Feuerbach, scrive nell’”Essenza del cristianesimo” nel 1841 che “l’uomo afferma in Dio ciò che nega in se stesso”. Qui troviamo la critica di tutta una teologia cristiana che invita il credente ad abbassarsi davanti a Dio, come se Dio avesse bisogno del nostro annientamento per essere grande, per essere Dio in pienezza.

Noi possiamo promuovere un umanesimo cristico. Infatti Dio in Gesù rivalorizza la condizione umana e afferma la nostra dignità. Nei momenti difficili della nostra vita, quando siamo sui bordi dell’abisso, tentati dalla disperazione, è importante ricordarsi che noi siamo il tempio di Dio, che Dio ci aiuta ad attraversare le tempeste per raggiungere l’altra riva (Marco 4, 35-41) e ci accompagna quando marciamo nella valle dell’ombra della morte, come afferma il salmista (Salmi 23, 4).

La seconda conseguenza che scaturisce dalla convinzione che noi siamo il tempio di Dio è l’affermazione di una esaltante responsabilità. Non vogliamo essere falsamente umili. Pensare e credere che Dio è in noi significa scoprire la nostra forza: sono possibili un dinamismo, degli slanci, un mettersi in marcia che ci aprono un cammino. Dio infatti agisce nell’uomo, in noi. Ogni gesto di misericordia e di giustizia è un gesto divino. “Chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui.” (1 Giovanni 4,16)

Concludo con una citazione del sacerdote svizzero e grande mistico Maurice Zundel, che dichiarava in una predicazione: “Dimentichiamo tutta la nostra negatività, tutta la nostra pesantezza, tutta la nostra stanchezza, tutta la nostra usura, tutti i nostri limiti, tutti i limiti degli altri. Che importa tutto questo quando Dio è in noi […]” (« Sommes-nous une façade ? », omelia del 26 febbraio 1956 a Losanna, in Présence de Maurice Zundel, juillet 2011, n° 75)

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