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La “teologia biblica”

Durante un incontro nel quale la varietà dei riformati era ben rappresentata, ciascuno e ciascuna doveva presentarsi attraverso le sue convinzioni teologiche: uno si diceva barthiano, l’altro liberale, il terzo evangelico. Alcuni poi si definivano neoluterani, neocalvinisti o post-liberali… A questo si aggiungevano poi varie altre convinzioni. La persona che prese la parola per ultima pronunciò questa frase magnifica: “Io non amo le etichette, sono una prigione! Piuttosto ho una teologia “biblica…”. Tre considerazioni da fare:Il rischio delle etichetteOvviamente il rischio delle “etichette” è di ingabbiare l’altro riducendolo a una parola, rifiutandogli la sua parte di riflessione personale, negandogli il diritto alla singolarità. La nostra storia cristiana è disseminata di tali anatemi. Quanti roghi accesi, persino a Ginevra, nel nome di un’etichettatura dogmatica sterile e mortale! Ancora oggi etichettare se stessi o gli altri è un modo di evitare il dibattito tra le convinzioni; so chi sei, allora so cosa pensi; so chi sono, allora so cosa penso. Ma “etichetta” non vuol dire “pensiero”! Dove sarebbero la libertà e lo sforzo della ragione, valori ai quali siamo affezionati, se si limitassero le convinzioni a delle parole uniche? All’inverso, credere di pensare da soli, senza rifarsi a una corrente di pensiero, sa di puro orgoglio. Credere di potere reinventare tutto è un po’ come addentare il frutto dell’albero della conoscenza, una variante contemporanea del peccato originale…La pluralità biblicaPretendere che esista “una” teologia biblica è una menzogna intellettuale! Chiunque entri nella grande biblioteca biblica (non dimentichiamo mai che il termine “Bibbia” significa “i libri”) scopre un paesaggio alquanto multiforme. I testi di sapienza non hanno la medesima teologia dei libri profetici, che del resto sono diversi tra loro. Non abbiamo uno ma quattro vangeli. L’epistola ai Romani non presenta la medesima teologia di quella agli Ebrei. Le epoche, i generi letterari (che possono diversificarsi all’interno dello stesso libro, come nei vangeli), le scuole di pensiero, le comunità di redazione e di recezione sono diverse. Pensare a partire dalla Bibbia vuol dire instaurare la diversità come fondamento del pensiero. Fare teologia biblicamente vuol dire vivere la teologia in maniera dialogica e non fissata in un sistema chiuso. Del resto, nei vangeli le domande sono più numerose delle risposte, a cominciare da quella che costituisce il cuore del racconto: “E voi, chi dite che io sia?” (Marco 8:29)L’orgoglio del proprio pensieroDire che si professa una teologia “biblica” suppone che quella degli altri non lo sia! Siamo seri: le teologie barthiane, liberali, evangeliche o altro non si fondano sulla “Bella addormentata nel bosco” o su “Alice nel paese delle meraviglie” (per quanto…); esse si costruiscono a partire da un certo punto di vista sulla Bibbia e sul mondo; hanno una legittimità scritturale. La Bibbia senza dubbio proibisce molte ideologie che conducono alla disumanizzazione dell’uomo e all’idolatria di certe forme del divino, ma lascia aperto il campo del possibile. Non dobbiamo tornare indietro ricostruendo la nostra torre di Babele teologica. La pluralità e la diversità sono consustanziali alla natura umana e al pensiero spirituale. La Bibbia istituisce interpreti e non esperti in umanità e divinità.

Rifiutare in maniera estremista le “etichette” troppo spesso cela, nella nostra società, l’assenza di convinzioni. Al rischio di venire ingabbiati si contrappone il rischio del vuoto di pensiero. Evitiamo questa trappola demagogica nelle nostre riflessioni teologiche. Manteniamo tenacemente il principio, enunciato in particolare da Anselmo d’Aosta (1033-1109), della “fides quaerens intellectum” (la fede alla ricerca di intendimento). Le nostre Chiese hanno bisogno della diversità delle correnti e delle opinioni, che le rende (un po’) meno stupide.

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