Non c’è alcun dubbio che i martiri abbiano fatto molto per la propagazione della loro fede e dato avvio alle conversioni, quando invece i loro carnefici pensavano di distruggere quella fede uccidendoli. Ma non è l’argomento dell’efficacia che è stato ricordato dalle Chiese che hanno valorizzato il martire e che, con uno scivolamento deprecabile, sono arrivate a lodarne la morte dolorosa là dove inizialmente si voleva solo vantarne la testimonianza coraggiosa. Il nimbo dei testimoni è stato sostituito con una galleria di suppliziati. Dall’elogio della testimonianza si è passati a quello del suicidio sacrificale.
Vedere nel martirio un “battesimo di sangue”, secondo la formula consacrata, viene in effetti a congiungere ciò che dovrebbe restare separato: la brutalità del supplizio e la fedeltà alla propria fede. Sbarazzare l’immagine del martirio dalla sua iconografia dolorista sarebbe un’opera utile. Si ritroverebbe il senso di ciò che può essere una testimonianza vivente. Attestare della sincerità delle loro convinzioni, portare testimonianza della forza della fede che li sostiene dovrebbe essere associato a una grande vitalità piuttosto che a una morte dolorosa. E quando malauguratamente la morte è la sola via d’uscita lasciata al testimone, allora si ammiri la sua fermezza senza godere, come se non bastasse, in maniera molto sospetta, delle sofferenze patite.
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