Di James Woody
Traduzione di Giacomo Tessaro
Ma di cosa parliamo quando diciamo “Dio”? Parliamo della stessa cosa quando diciamo che Dio è amore, quando gli addebitiamo la morte di una persona (“Dio lo ha chiamato a sé”), quando facciamo di lui il padrone del nostro destino (“A Dio piacendo”), quando affermiamo che è il fondamento dell’essere o quando professiamo che “Dio libera il suo popolo da ogni schiavitù”? Quando diciamo “Dio”, non sappiamo veramente cosa stiamo dicendo. “Dio” è troppo spesso un jolly dietro al quale non c’è nessuna idea definita sul significato di questa parola. “Dio ha detto che…”, “Dio vuole che…” sono delle formule che trasformano i nostri desideri personali in imperativi categorici.
Il solo atteggiamento possibile di fronte a questa inflazione di “Dio” è il digiuno: smettere di dire “Dio” almeno per un mese. Non considerare il ruolo dell’Eterno invano. Dire esplicitamente a cosa rimanda la parola “Dio”, ma senza più pronunciarla, senza più scriverla. Una moratoria di “Dio”, una kenosis (uno svuotamento) di “Dio” per sbarazzare l’Eterno da tutti i nostri sottintesi, da tutte le nostre definizioni implicite, da tutti gli stereotipi che ci trasciniamo dietro e che impediscono a Dio di essere l’Eterno. Se “Dio è al di là di Dio”, ovvero se il Dio autentico è al di là delle nostre sempre imperfette definizioni, come suggeriva il teologo Paul Tillich, allora andiamo al di là della parola “Dio” ed esploriamo quello spazio. Potremo così attribuire a questa parola la nuova realtà che avremo sperimentato e “Dio” sarà allora la parola giusta – il logos – per esprimere ciò che i testi biblici si sforzano di rivelarci e che la fede ci fa desiderare.
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