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Il problema del male

Di Louis Pernot

pastore della Chiesa Protestante Unita di Francia a Parigi,
dove insegna anche alla Facoltà di Teologia Protestante.

 

 

Traduzione di Giacomo Tessaro

 

L’esistenza del male induce molti a rifiutarsi di credere in Dio. Louis Pernot ci presenta diverse maniere di ripensare tale problema e di credere in Dio a dispetto del male.

 

 

 

C’è un’obiezione frequente alla fede: “Non posso credere che ci sia un Dio con tutto il male che esiste nel mondo”. È una questione non nuova, che in realtà non è un’obiezione: sono state trovate numerosissime risposte e spiegazioni a questo dubbio. La scienza che tratta tale questione si chiama “teodicea”, che etimologicamente significa “giustificazione di Dio”.

 

Tra le risposte che abitualmente si danno a tale obiezione, ce ne sono di non adeguate. La prima è che il male sarebbe una punizione di Dio, una conseguenza del peccato. È certamente vero che i nostri errori possono produrre il male, ma non è Dio a punire, e il male, ovviamente, colpisce anche i giusti: la Bibbia lo dice esplicitamente nel libro di Giobbe e in molti passi dei Vangeli (il cieco nato in Giovanni 9, la torre che crolla sui Galilei in Luca 13).

 

Un’altra idea, che di quando in quando viene invocata, è che il male sarebbe una prova inviata da Dio ai credenti per metterne alla prova la fedeltà. Questo può trovarsi in Giobbe, ma a partire dal Nuovo Testamento non possiamo più pensare che Dio possa essere fonte di male o di sofferenza per l’uomo; inoltre, Dio non ha bisogno di metterci alla prova in quanto conosce molto bene il valore di ciascuno.

 

C’è poi l’idea più diffusa, secondo la quale il male non si deve a Dio ma all’uomo. È vero che le guerre e i massacri si devono alla malvagità dell’uomo: si può dunque pensare che il male deriva dal fatto che Dio ha scelto di dare una certa libertà all’uomo, libertà che non ha intenzione di riprendersi. In parte è vero, ma è difficile immaginare che Dio possa lasciar compiere crimini efferati nei confronti di persone innocenti, rifiutando di intervenire in nome di un principio. Dio è dunque capace di una totale assenza di compassione? Ne dubito. Oltretutto, molto del male del mondo non dipende dall’uomo: le malattie terribili che colpiscono i bambini, i terremoti, le carestie. È una spiegazione che non riesce a rendere conto delle catastrofi naturali e che in ogni caso non è sufficiente.

 

Abbiamo poi la spiegazione più semplice e più antica, quella del dualismo: il mondo è come un campo di battaglia tra due principii, quello del bene che è Dio e quello del male che è il Diavolo. Ma il cristianesimo è fondamentalmente monoteista e crede a un unico principio attivo nel mondo, cioè Dio: il “diavolo” non è che un termine generico di comodo per designare il male in generale.

 

In tale dilemma, che consiste nel dire che se Dio è onnipotente allora non è amore e che se è amore allora non è onnipotente, possiamo preferire la seconda ipotesi e rinunciare all’onnipotenza. In effetti, l’”onnipotenza” di Dio non è un concetto evangelico. L’espressione è totalmente assente dai quattro Vangeli e dalle Epistole (salvo una citazione dell’Antico Testamento) e si trova solamente nell’Apocalisse, che riprende un’errata traduzione del termine “pantocrator”. Non ci sono quindi ragioni bibliche probanti per conservare l’idea che Dio è onnipotente: al contrario, si potrebbe pensare che il male è precisamente ciò che non è volontà di Dio, che è per definizione qualche cosa che non va nella direzione del suo progetto e che Egli non può veramente impedire.

 

Alcuni diranno che, se Dio non è onnipotente, allora non è nulla! Falso: c’è una grande margine tra la totale impotenza e l’onnipotenza. Dio ha una potenza infinita, ma ciò non vuol dire che possa tutto. Questo è il senso di un’antica idea dei Padri greci, quella della creazione continua: il mondo non è un’opera d’arte terminata, sulla quale si può giudicare l’artista, ma si sta facendo momento dopo momento. Quindi, se esiste ancora del male nel mondo è perché il mondo non è stato ancora totalmente creato da Dio; Egli ci chiede precisamente di prendere parte alla sua opera insieme a Lui, di lavorare perché il male che ci indigna retroceda. Questo Dio non onnipotente può comunque fare molto: senza per forza sapere perché il male si accanisca ingiustamente, dobbiamo credere che Dio non vi ha parte alcuna e che Egli può fare infinitamente per aiutare chi è colpito dal male.

 

Qualsiasi risposta si dia alla questione del male, è essenziale non ritenerne responsabile Dio. La teologia insegnata dai vecchi catechismi, dove si diceva “Ci rimettiamo a Dio, sia fatta la sua volontà” ha generato troppi atei e troppe persone in rivolta contro Dio, che perdono la fede in quel Dio che ritengono responsabile delle loro sofferenze, e questo proprio nel momento in cui la fede avrebbe potuto essere loro di enorme aiuto.

 

Un’altra soluzione, totalmente opposta, è quella di Calvino. Per lui Dio è assoluto, onnipotente e onnisciente, e tutto ciò che accade è volontà di Dio. Ora, siccome Dio è buono, ciò che accade è giocoforza buono e quindi, in qualche modo, il male non è che un’apparenza. Qui troviamo senza dubbio qualcosa di corretto. Noi abbiamo una visione molto parziale delle cose e non possiamo veramente sapere ciò che è bene e ciò che non lo è. Dobbiamo dunque avere fiducia in Dio: tutto ciò che fa è buono e se ci sembra male è perché non abbiamo i mezzi per comprenderlo. Calvino ci chiede un atto di fede: se qualcosa accade è perché Dio l’ha voluto e dunque è bene; sia fatta la sua volontà, un giorno comprenderemo.

 

Per illustrare tutto questo, possiamo dire che esistono due teologie: quella del gatto e quella del cane. Quando il padrone di un animale deve fare delle cure dolorose, il gatto si rivolta, combatte, rifiuta le cure anche se queste gli salveranno la vita. Il cane, al contrario, lascia fare e pensa: “Io non so perché il mio padrone mi stia facendo del male, ma se lo fa è per il mio bene: non ho bisogno di capire, ho fiducia nel mio padrone”. Con le sue zanne potrebbe uccidere il padrone che gli sta massacrando la zampa, eppure resta assolutamente docile. Cosa siamo noi di fronte a Dio, se non dei cani nelle mani del padrone?

 

Questo è interessante: infatti, in cosa il male è male? In rapporto al mondo, poche delle cose che noi consideriamo “male” sono davvero male. Quando muore un bambino, materialmente non succede gran che: avrebbe anche potuto non nascere. Un bambino che muore non è un male, è semplicemente la negazione di un bene: è la sofferenza della madre che fa sì che sia veramente male. Ora, la sofferenza deriva dalla rivolta, dal rifiuto del fatto. Accettare ciò che accade con saggezza vuol dire togliere al male la capacità di nuocere, e quindi sopprimere la sofferenza. Certo, possiamo pensare questo per le piccole cose e dirci “Dopo tutto, se è così, forse è la volontà di Dio e magari è meglio così”. Nei casi molto gravi, però, ci sembra impossibile da pensare. Tuttavia Calvino, come anche altri hanno fatto, ha potuto rimanere fedele a tale idea fino alle estreme conseguenze. Anche quando ha visto morire la sua amatissima sposa Idelette e, sotto i suoi occhi, il suo unico figlio, non ha rinunciato a dire: “Se è così, sia fatta la volontà di Dio”.

 

Tale teologia calviniana sembra difficile da ammettere al giorno d’oggi, ma possiamo conservare l’idea che, in ogni modo, il fatto è più grande di noi e che non potremo mai spiegare tutto quanto. C’è certamente a un dato momento, nel problema del male, una sorta di atto di fede che ci fa dire “Pongo la mia fiducia in Dio”; senza mai, in ogni caso, mettere in dubbio la sua bontà infinita né il suo amore incondizionato per noi. Le due ultime soluzioni che abbiamo esposto, nonostante siano apparentemente opposte, hanno in comune che, in ogni caso, Dio non può essere che fonte del bene e non può in nessun caso volere il male.

 

 

 

 

 

 

 

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À propos Gilles

a été pasteur à Amsterdam et en Région parisienne. Il s’est toujours intéressé à la présence de l’Évangile aux marges de l’Église. Il anime depuis 17 ans le site Internet Protestants dans la ville.

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