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Pensare la speranza

 Isolate dal loro contesto, queste parole sembrerebbero esprimere la completa assenza di speranza. Ma, prosegue l’autore, “Allora, sorge una speranza altra dal desiderio di continuare ad esistere”. Ricoeur riconosce di rompere con il retaggio paolino della redenzione dei peccati ma parla di un “salvataggio infinitamente più radicale della giustificazione dei peccatori: la giustificazione dell’esistenza”.

Questo breve promemoria del modo con cui uno dei nostri più grandi filosofi contemporanei affronta la questione della speranza è abbastanza rappresentativo dei dibattiti e delle tensioni che ruotano attorno a questo concetto. Alcuni hanno voluto farla finita con la speranza, fonte di illusioni e quindi di disillusioni. Altri hanno voluta salvarla, distinguendola dalla speranza profana e dalla disperazione che ne è il corollario. Altri, infine, l’hanno demitologizzata e così ne hanno fatto una cosa nuova.
Farla finita con la speranzaL’opuscolo di André Comte-Sponville “Le bonheur désespérément” (La felicità disperatamente, 2003) illustra proprio la prima corrente. Qui l’autore denuncia le “trappole della speranza” le quali, facendoci aspettare un domani di sole, ci fanno venir meno la sola realtà a nostra disposizione, il nostro presente. Comte-Sponville ritrova le saggezze antiche che esaltano l’accettazione di ciò che è, certo moderandole e ammettendone il carattere utopico ma invitando, con Spinoza (1632-1677), a rallegrarsi dell’esistente, ad apprezzare le piccole soddisfazioni che il quotidiano ci offre. Logicamente tesse l’elogio “di una felicità in atto che non spera nulla” e si unisce alla grande famiglia dei moralisti alla Chamfort (1740-1794), che mettevano “volentieri sulla porta del paradiso il verso che Dante ha posto su quella dell’inferno: Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate”.

Condannata senza appello, la speranza religiosa viene qui confusa con una speranza più terrena, a favore di una morale dell’azione. “Il contrario di sperare è sapere, potere e gioire” scrive Comte-Sponville.
Salvare la speranzaJacques Ellul (1912-1994) riconosceva il giusto fondamento della denuncia delle illusioni alimentate dalla speranza: “La speranza (espoir) è la maledizione dell’uomo” scriveva in “La speranza dimenticata” (Queriniana, Brescia, 1975). Fintanto che si spera, infatti, non si agisce e quello che avviene, avviene. La speranza è un fattore di passività, attende e crede possibile una soluzione positiva.

Ma c’è una speranza (espérance) completamente diversa: “passione dell’impossibile” “non ha luogo che in un tempo di disperazione”, essa è “risposta al silenzio di Dio”. Mentre il primo tipo di speranza conta sulla riuscita dei mezzi messi in opera per risolvere una situazione, il secondo tipo si esprime quando non è più pensabile nessun mezzo. Questa speranza è un’irruzione del radicalmente altro all’interno di noi stessi: la nonviolenza nel cuore della violenza o la critica nel cuore della propaganda. Essa è quindi sempre “a dispetto di” o “malgrado” tutto ciò che sembra renderla vana. Oppure, secondo un’altra formula, è “la presenza dell’escatologico nella nostra attualità”.

Ellul fa così eco al Kierkegaard (1813-1855) di “Timore e tremore”, il quale avendo attraversato la melancolia disperata dello stadio estetico e superato lo stadio etico, consacra il suo studio a quel “cavaliere della fede” che è Abramo, pronto a sacrificare Isacco per una “sospensione teleologica della morale”: Abramo infatti può essere solo un omicida, se lo si giudica dal punto di vista della morale, o un credente, se lo si giudica da un punto di vista religioso. Il suo gesto è assurdo, come è irrazionale la formula dell’Epistola ai Romani (4:18) che definisce la sua fede: “Egli, sperando contro speranza [“par’ elpida ep’ elpidi”, letteralmente: contro la speranza a causa della speranza], credette.”

Paul Ricoeur dichiarava anche di non volere “mascherare il salto che rappresenta l’accesso all’atto di speranza che solo [gli] pare capace di affrontare l’ultima angoscia” [quella della disgrazia che tocca il giusto sofferente]”. (“Vera e falsa angoscia”, in “Storia e verità”, Marco,Torino, 1994) Tuttavia Ricoeur invita ad una speranza altra da quella qui descritta.
Per un’altra speranzaIn Kierkegaard ed Ellul troviamo la verticalità della speranza (espérance), la cui irruzione nel quotidiano non intrattiene nessuna relazione con questo quotidiano, al contrario appartiene a una realtà completamente altra. Invece la speranza conserva una certa orizzontalità in Ricoeur, per il quale la resurrezione di Cristo è da vedere “come resurrezione nella comunità cristiana, la quale diventa il corpo del Cristo vivente”, senza distinguere la vittoria sulla morte dal servizio degli altri. Alla preoccupazione di sopravvivere dopo la morte viene sostituita la speranza di esistere come vivente fino alla morte, di modo che morire sia “l’ultima affermazione della vita”. Tale secolarizzazione della speranza non costituisce tuttavia l’ultima parola del filosofo; la sua concezione orizzontale della speranza non esclude quella che lui stesso qualifica come una “divagazione” sull’espressione biblica (Salmo 8:4) della “memoria di Dio” che gli fa dichiarare: “La resurrezione è il fatto che la vita è più forte della morte in due sensi: che la vita si prolunga orizzontalmente nell’altro che mi sopravvive e si trascende verticalmente nella memoria di Dio.” (“La critica e la convinzione”, Jaca Book, Milano, 1997)

La volontà di pensare la speranza ha accompagnato Ricoeur fino alla fine: le sue note postume (“Vivo fino alla morte”) testimoniano ancora della diffidenza verso l’immaginario dell’aldilà e del “pericolo di reintrodurre di frodo la vita ultraterrena” nel pensiero della speranza, ritornando sulla dimensione verticale della speranza, ovvero la memoria di Dio.

La scrittura va a tastoni ma ritorna sempre sulla doppia esigenza di fronte alla morte: rinunciare all’immaginario della vita ultraterrena e sperare che in Dio il senso delle nostre esistenze sarà/sia salvato. Questa speranza è quella già espressa in “Vera e falsa angoscia” in questi termini: “Nulla è più vicino all’angoscia del non-senso della timida speranza”.

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