Questi due libri rappresentano una sintesi impressionante di tutto il suo pensiero, molto cristocentrico (“il Re”) e dominato, come tutto il cristianesimo sociale di allora, dal tema del Regno di Dio. Moltmann e Monod condividono una visione comune, secondo la quale la speranza cristiana non deve, come troppo spesso avviene, farci rivolgere passivamente verso l’Aldilà, ma al contrario inserirci nel nostro mondo per trasformarlo. La speranza cristiana è inseparabile da questa esigenza. L’attesa è un’attesa attiva; se abbiamo gli occhi rivolti verso il Cielo, non per questo non teniamo i piedi per terra. Il Regno di Dio (o il mondo nuovo) in questo modo coniuga il già e il non ancora, il presente e l’avvenire. Lo abbiamo detto spesso. Ma prendere questa prospettiva sul serio non significa guardarsi alle spalle verso una Croce passata e lì fermarsi, come si fa anche troppo spesso, ma capire che il “Tutto è compiuto” (Giovanni 19:30) di Gesù crocifisso è un appello che ormai significa: per noi c’è ancora tutto da fare. Albert Schweitzer scrive in una lettera a Maurice Carrez del 11 luglio 1952: “Il centro di gravità della fede cristiana non è il dramma della redenzione della nostra dogmatica, bensì la venuta del Regno di Dio nel nostro cuore e nel mondo.”
La lotta per il Regno di Dio, al tempo stesso sperato e compiuto, sempre auspicato dal cristianesimo sociale che lotta contro le ingiustizie, era negli anni attorno al 1900 una risposta molto elaborata e concreta per rintuzzare gli attacchi del marxismo: quest’ultimo rimproverava ai credenti di esiliare l’uomo dal nostro mondo per relegarlo in una speranza sterile. Questa fuga viene del resto sempre denunciata dagli atei, di cui Nietzsche è un esempio emblematico: “Vi scongiuro, fratelli, restate fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!” scrive in “Così parlò Zarathustra” (1883-1885).
Il dialogo con l’ateismo a proposito della speranza e dell’attesa si rivela subito un dialogo tra sordi. Gli atei condannano la fede come una sorta di speranza disperata, perché secondo loro si riduce ad una vana utopia. I cristiani ritengono che l’ateismo rinchiuda l’essere umano in un presente inumano senza aprirlo alla categoria della trascendenza, che appartiene alla nostra natura più vera e profonda. Henri de Lubac, teologo cattolico, conclude così nel 1943 la prefazione alla sua opera cardinale, “Il dramma dell’umanesimo ateo” (Morcelliana, Brescia, 2013): “La terra, che senza Dio cesserebbe di essere un caos solo per divenire una prigione, è in realtà il campo magnifico e doloroso in cui si elabora il nostro essere eterno. Perciò la fede in Dio, che nulla sradicherà dal cuore dell’uomo, è la sola fiamma nella quale si conserva, umana e divina, la nostra speranza.”
È assolutamente ingiusto pretendere che gli atei siano necessariamente disperati perché non credono né in Dio né in una vita eterna. “La vita umana comincia dall’altro lato della disperazione”. Di chi è questa affermazione? Dell’Apostolo Paolo, di Agostino, di Pascal, di Kierkegaard? No, si trova alla fine delle “Mosche” (1943) di Sartre. Il tema della speranza attraversa tutta la sua opera: Sartre vede in essa la verità di un uomo sempre al di là di se stesso e interamente dominato dai suoi progetti, dal futuro, dalla libertà creatrice. Ecco le ultime parole scritte da Sartre l’anno stesso della sua morte e apparse nel Nouvel Observateur nel 1980: “Morirò nella speranza […] ritengo ancora che la speranza è la mia concezione del futuro.” Camus invece scrive in “Nozze” (1950): “Se esiste un peccato contro la vita, forse non consiste tanto nel disperarne, quanto nello sperare in un’altra vita e sottrarsi all’implacabile grandezza di questa.” Credere in una vita futura significa per lui la tentazione di rinunciare alle ricchezze presenti, rimettersi a un ipotetico domani, pretendere di aprire una porta chiudendone un’altra, terrestre.
Certe dottrine cristiane e protestanti molto tradizionaliste forniscono veramente della nostra fede un’immagine illuminata dalla speranza? Piuttosto direbbero che è impossibile dire Dio senza votare l’uomo alla disperazione, la disperazione della sua condizione mortale e peccatrice; senza, in un modo o nell’altro, scoraggiarci presentandoci come “incapaci da noi stessi di fare il bene” (Calvino). Dio è la speranza dell’uomo, ma a condizione di disperare dell’uomo! Tuttavia, come scrive il pastore Wagner (1852-1918), “l’uomo è una speranza di Dio”. Nella prospettiva divino-umana espressa in Gesù, è possibile esprimere la nostra fede in Dio senza esprimere quella di Dio nell’essere umano, di esprimere la nostra speranza senza esprimere la sua?
Infine, destinare gran parte dell’umanità alle pene eterne, come vuole l’ultraortodossa dogmatica cristiana, sarebbe questa la nostra speranza? Io non conosco, per quanto mi riguarda, una dottrina cristiana più disperata e più disperante.
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