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La paura salutare

Hanno visto. Glielo hanno detto. Sanno e hanno paura, colpite dallo stupore, paralizzate. E tuttavia, ci dice il redattore di Marco, è qui che comincia l’immensa avventura: l’incontro con il Vivente, colui che ora è altro e che bisognerà ri-conoscere: lo Straniero estraneo.

Allora di cosa hanno paura? Perché il silenzio?

Mi confronto con questo, con lo stesso interrogativo: mi si dice, io so, e in quell’istante la sorpresa mi fa tacere.

L’estraneo, che io non arrivo a comprendere e/o ad accettare, mi fa paura. Mi riporta a me stesso, alla minaccia che sento sorgere. E se l’altro, nella sua differenza, mi mettesse davanti a quell’altro che io sono per me stesso: lo straniero in quanto tale?

Ma dopo questo momento di silenzio: la parola. Il bisogno di dire. Di non tacere più, come le donne.

Ho paura infatti di quella retorica che fa risorgere i vecchi demoni, quei discorsi più o meno moderati sui capri espiatori, sul valore superiore di una civiltà rispetto a un’altra, sullo straniero come una minaccia… perché, parlando onestamente, nel mio intimo questa cosa mi parla. Tutto ciò che si accorda con l’agio delle mie certezze, dopo tutto, egoisticamente, mi fa comodo.

Ho paura della demonizzazione che prepara il terreno al terrore e apre le porte a tutte le forme di totalitarismo politico, religioso, sociale, perché so che è più facile fare appello al pensiero unico, proprio perché esso evita di pensare. Ho paura che alcuni possano nascondersi dietro l’etica dei diritti universali confessando di condividere gli stessi valori di chi rivendica il rifiuto dello straniero. La demagogia è adulatrice e per di più falsamente rassicurante: la comodità delle false evidenze.

Allora, come le donne: il fremito, il preludio al dire. Uscire dall’inquietudine, dal timore, dalla paura, dall’angoscia… Dopo il silenzio, le parole per dirlo: il primo passo verso il ri-conoscimento: dell’alterità, dell’altro io, di ogni persona al di là delle differenze. “Lo straniero ti permette di diventare te stesso facendo di te uno straniero” come dice Edmond Jabès. Un riconoscimento che mi permette di affermarmi, di essere io anche nella mia differenza, unico, come ciascuno di noi.

Allora proseguiamo, sempre con Marco: “Si è levato la mattina, ella (Miriam) va e l’annuncia, […] quando sentono non concordano. Dopo di che, a due di loro che camminavano […] si rende visibile sotto un’altra forma. I due vanno e l’annunciano…” Ecco fatto, la rivoluzione è in marcia: la resurrezione non è un catechismo ma una realtà. “Sotto un’altra forma”: lo straniero è colui che viene, che posso incontrare, se voglio, senza avere paura.

Quella prima paura che ha fatto nascere il coraggio mi è stata necessaria, mi ha rivelato che c’era un pericolo. Senza di lei non potrei avere coscienza del rischio di esservi a fianco senza riconoscerlo, a lui, lo straniero; e che forse bisogna passare attraverso i momenti di paura, di dubbio, di stupore. Infine so che che non posso più fuggire me stesso: la paura di avere paura. L’altro, al di là di tutto ciò che mi dis-turba, è colui che mi permette di liberarmi dalla chiusura in me stesso. La fonte dell’incontro.

Allora, ecco quello che trovo nella “buona novella”, la prova che avere paura è salutare, perché l’addomesticamento della differenza dall’altro è difficile, essendo anche un incontro con se stessi e quindi propizio a far nascere dei timori… Ma davanti a coloro che me ne vogliono dissuadere con i loro discorsi, le loro decisioni politiche o altro, i distillatori di falsi terrori e odio, davanti a costoro non ho più voglia di tacere.

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