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“Di sorpresa in sorpresa”

A partire dal racconto del giudizio finale secondo il vangelo di Matteo, Philippe de Vargas ci offre una fresca lettura dell’episodio che ci fa dimenticare le interpretazioni tradizionali per mostrarci quale testimonianza vibrante sia questa pagina, che riesce anche oggi a invitare ciascuno di noi alla solidarietà con coloro che soffrono, che fu di Cristo.

Commento biblico: Il Giudizio finale secondo il vangelo di Matteo.

Di Philippe de Vargas
laureato in Lettere, preside in pensione, teologo dilettante e cultore di pedagogia, è membro della Chiesa Evangelica Riformata del Cantone di Vaud (Svizzera), all’interno della quale ha assunto diverse funzioni.

Traduzione di Giacomo Tessaro

L’episodio del Giudizio finale, al capitolo 25 di Matteo, pone alcuni problemi; infatti, l’affermazione secondo cui la nostra salvezza dipende unicamente dai nostri atti di carità contraddice altri passi del Nuovo Testamento, che proclamano la salvezza per fede, oppure annunciano la redenzione finale di tutta l’umanità. Un’altra difficoltà è l’immagine delle pecore e dei capri, che stona con l’appello alla conversione che attraversa tutta la predicazione di Gesù. Chi nasce capro non può diventare pecora, eppure Gesù ci dice che un empio può diventare suo discepolo.

Meglio dunque guardare a questo testo non come a un insegnamento sulla fine dei tempi, ma come una parabola, un racconto che non necessariamente ha valore di realtà o di norma, ma che nasconde comunque una verità profonda; scopriremo così una parentela tra questo testo e la parabola di Lazzaro e del ricco epulone, in quanto anch’essa descrive l’aldilà in termini metaforici.

La stupefazione predetta da Gesù è impossibile, proprio perché lui stesso la annuncia. Nessun lettore della Bibbia potrebbe più chiedergli “Signore, quando mai ti abbiamo soccorso?”, perché lui stesso ha già risposto alla domanda. La grande sorpresa non si situa quindi alla fine dei tempi, ma nel qui e ora, per chiunque ascolti Gesù esprimere due verità sconcertanti: la sua solidarietà con i più sfavoriti e la salvezza per le opere di carità.

In nessun altro punto del Nuovo Testamento l’abbassamento di Cristo viene espresso con più forza. L’apostolo Paolo lo esprime magnificamente nel capitolo 2 della lettera ai Filippesi, ma solamente a proposito della sua vita terrestre, prima della quale era “in forma di Dio” e dopo la quale Dio “l’ha sovranamente elevato”. Matteo va più in là: non solo Cristo si è incarnato per un tempo in uno “schiavo”, ma condivide le sofferenze dei più piccoli dei suoi fratelli fino all’eternità, si identifica con gli indigenti, i rifugiati, i malati e i prigionieri di tutti i tempi. Ecco ciò che dovrebbe sconvolgere il nostro concetto della persona di Cristo e delle persone svantaggiate, di cui Gesù è il paradigma.

È un cambiamento di mentalità che modifica anche la nostra relazione con chi soffre: qui Gesù non ci chiede di lavorare per la salvezza della loro anima, ma per migliorare la loro vita materiale. È un messaggio ben poco “religioso”, che mette in crisi tanto i legalisti, che si immaginano di guadagnare il cielo attraverso il rispetto scrupoloso dei riti e delle regole, che gli spirituali, che credono di salvarsi per sola fede.

Lo sfondo della parabola è preso in prestito dalla tradizione apocalittica giudaica: il re di gloria, gli angeli, le pecore e i capri, il giudizio, la felicità dei giusti e il castigo dei reprobi, ma sarebbe errato concludere che Gesù aderisce a tali luoghi comuni, che fanno parte del fondo culturale del suo popolo: il senso della parabola si trova altrove, nel divario tra ciò che gli esseri umani si aspettano di sentire e ciò che viene loro effettivamente detto. Senza fare menzione né della Legge, né della fede, la parabola afferma che l’essere umano sarà salvo per la più prosaica delle sue buone opere.

Gesù non teme il paradosso e la contraddizione, in quanto la Verità che annuncia è al di là della nostra logica. La parabola del Giudizio è un procedimento che serve a dirci con forza una verità trascurata, ovvero l’importanza primaria degli atti di carità. Senza dubbio, per il credente, tali gesti sono legati alla fede, che è la loro fonte, e che in essi trova la sua dimostrazione, ma in questo passo non è di questo legame che Gesù sta parlando.

Possiamo piuttosto vedervi l’affermazione (tanto più suggestiva quanto è posta al termine del suo ministero) della fraternità e solidarietà di Cristo con tutti coloro che soffrono, e l’appello che rivolge a noi perché andiamo in loro aiuto. Scopriamo così perché i due comandamenti del riassunto della legge sono in realtà uno solo: amare (in opere!) il nostro prossimo, significa amare Dio nella persona di suo Figlio, così come amare Dio significa amare il prossimo.

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À propos Gilles

a été pasteur à Amsterdam et en Région parisienne. Il s’est toujours intéressé à la présence de l’Évangile aux marges de l’Église. Il anime depuis 17 ans le site Internet Protestants dans la ville.

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