Di Agnès Adeline-Schaeffer
Traduzione di Giacomo Tessaro
Ci sono molti motivi per non amare il verbo “rinnegare”, che è pesantemente caricato di una valenza negativa. Troviamo il suo senso primario in un contesto religioso: significa l’abbandono della fede o l’abiura di una religione. Rinnegare vuol dire cessare di essere fedele a una persona o una idea. Rinnegare è una azione che genera sofferenza, sia per la persona rinnegata, che si sente tradita, che per quella che rinnega, che scopre la ferita interiore del senso di colpa. Rinnegare qualcuno lascia un gusto amaro, in bocca come nel cuore, e fa scoprire una devastante solitudine interiore, ammirabilmente espressa, per esempio, nella musica delle “Passioni” di Johann Sebastian Bach. A seguito del rinnegamento di Pietro qualche nota cromatica discendente, prossima alla dissonanza, ci fa prendere coscienza della profonda disperazione del discepolo. Rinnegare qualcuno ci fa scoprire la parte tenebrosa del nostro essere: una debolezza personale quando ci si credeva forti, una violenza soggiacente manifestata da un atteggiamento ostile quando ci si credeva dolci, la rivelazione di una paura che porta con sé il rifiuto dell’altro quando l’altro contava proprio sul nostro sostegno. Tutti questi rinnegamenti si possono riparare con una presa di coscienza, il riconoscimento della situazione e la richiesta di perdono. Ma la cosa più devastante, perché più difficile da superare, è rinnegare se stessi. Il nostro essere interiore si dissolve allora nel nulla. E tuttavia Cristo esige da chi lo segue di rinnegare se stesso. Seguendolo, rinunciamo a essere noi soli quello che siamo, o che crediamo di essere, per accogliere, con lui, chi siamo veramente.
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