Gilles Bourquin
Gli esseri viventi monocellulari si moltiplicano dividendosi in cellule figlie in tal modo che la morte non fa parte del loro processo riproduttivo : la stessa vita corre senza interruzione da una generazione alla seguente, eccetto nel caso della distruzione della cellula da parte di un predatore, per esempio.Gli esseri biologici evoluti di cui facciamo parte si riproducono in una maniera totalmente diversa, liberando cellule particolari, chiamate gameti, dai quali sono generati i discendenti. Da un punto di vista purament biologico, il parente che si è così riprodotto non è più personalmente situato sul filo ininterrotto della vita che lega le generazioni. Non è più utile alla sopravvivenza della specie e può scomparire. La morte biologica degli individui nasce con questo modo particolare di riproduzione.
Non stupisce perciò che i primi popoli umani abbiano percepito la morte come una anomalia, dato che la vita è per essenza destinata ad evolversi e trasmettersi senza sosta. Si è dunque cominciato ad immaginare che sotto altra forma, staccata dal suo involucro corporeo, la vita si prolungasse al dil à della morte fisica. Sembrerebbe che i rituali e l’arte sacra siano apparsi molto presto attorno alle sepolture, il chè permette di pensare che l’esperienza della morte è una delle radici più profonde della religione nel cuore dell’uomo.
Tutte le religioni hanno cercato in una maniera o nell’altra di svelare il mistero della morte, oltrepassandolo o conferendogli un significato positivo. Dal punto di vista religioso, la morte possiede in effeti un « vantaggio » insospettato : nel porre un limite di tempo alla vita dell’individuo, essa invita l’uomo a misurare le sue forze vitali, a interrogarsi sulla differenza tra l’essere e il non-esser, sulla sua origine e il suo destino. Quel segmento della nostra esistenza terrena appare come sospeso in un universo di interrogazioni, nella visione religiosa. Sono gli stessi limiti della vita che danno da « vedere » il loro prolungamento verso o a partire da una prospettiva ipotetica.
È dunque proprio sul fondamento dell’esperienza della morte che dobbiamo concepire quella della risurrezione, cosa che il cristianesimo dimostra nella maniera più chiara. In effeti, dopo un tempo di intensa attività che vede Gesù impegnarsi a curare in tutti i modi la vita umana, la sua stessa vita viene colpita da morte crudele, e cade vittima dell’ingiustizia. Quì viene mostrata non soltanto la bontà di Dio, la sua grazia che fa vivere, ma anche la potentza distruttiva del male che agisce attraverso gli uomini. Sulla base di questo scacco inflitto alla vita umana sorge allora la risurrezione, come a proclama della vittoria divina sull’ingiustizia, il male e la morte tutt’insieme.
Notiamo subito che la risurrezione così concepita non corrisponde ad una semplice riattivazione della vita biologica dopo la morte, poichè un simile avvenimento pur straordinario non basterebbe a sconfiggere la potenza del male. All’opposto ci farebbe ricadere sotto il suo giogo, esponendoci inevitabilmente a morire ancora, come fu il caso per Lazzaro. Su questo punto pure la dottrina orientale della reincarnazione rivela i suoi limiti, perchè sottomette l’individuo ad una fila interminabile di vite terrene tutte promesse alla corruzione. D’altronde se la fede cristiana ci promettesse semplicemente una vita senza fine nell’aldilà, non si scosterebbe un gran’ che dalla religione faraonica per esempio, a parte il fatto che questa sopravvivenza sarebbe estesa a tutti gli esseri umani. Su questo piano il cristianesimo si troverebbe pure al disotto delllo sciamanesimo o dello spiritismo, che invitano a dialogare con in defunti.
Così come i testi di Pasqua ce lo presentano, Gesù risuscitato non è un uomo rianimato, la sua qualità di vita è totalmente diversa da quella delle persone che attraversano l’esperienza del ritorno alla vita dopo un breve episodio di morte clinica. Il fatto che secondo i testi evvangelici la morte di Gesù sia stata visibile a tutto il popolo mentre la sua risurrezione è stata manifestata ai suoi soli discepoli – e ancora in maniera molto varia e spesso indiretta o irriconoscibile – ci conduce a pensare che la risurrezione è un avvenimento intimamente legato alla fede. Se certi credenti accentuano l’aspetto corporeo delle apparizioni del risuscitato (visibile, palpabile ecc.) affin di evitare una eccessiva spiritualizzazione del cristianesimo, altri sottolineano che esse sono offerte alla soggettività dei discepoli. Il legame della fede di Pasqua con dei fatti storici reali resta dunque ad aeternum una questione ambigua, perchè la risposta dipende prettamente da quel che si intende per « storico », la storia essendo sempre un dosaggio sottile di fatti oggettivi e di percezioni soggettive.
A conferma della risurrezione non bisogna dunque cercare nella storia ma nella nostra propria esperienza di credente, perchè gli avvenimenti che seguirono la morte di Gesù appartengono definitivamente al passato e non ci danno una luce sufficiente sul significato della risurrezione, la cui portata è molto più ampia e profonda. In effetti l’idea è apparsa molto presto tra i primi apostoli che Gesù non soltanto era risuscitato, ma che era egli stesso la risurrezione, in tutta la sua persona, la qualità della sua vita, del suo agire e del suo messaggio. Da questo punto nella Chiesa antica la risurrezione comincia a designare non solo il momento di Pasqua, pur eccezionale, ma tutto quello che Dio ha operato tramite Gesù e tutto quello che stava per operare nella storia tramite gli apostoli e la Chiesa fino al dì d’oggi e nel tempo futuro. Considerata a quel modo, la risurrezione equivale per finire al vasto movimento di regenerazione della vita in vista del rinnovamento di tutto l’ecosistema universale.
Resta un ultimo punto da precisare prima di concludere : se affermiamo che la risurrezione di Gesù è un fatto permanente che avvolge l’intero universo, siamo condotti a pensare che la sua morte non è di meno. Infatti abbiamo precisato che la sua risurrezione è sorta nel solo momento in cui la sua morte era anche manifestata. Sembrerebbe dunque che la morte sia per il cristianesimo un elemento necessario, componente integrale della risurrezione, che la vita non possa essere rigenerata se non attraverso la prova dolorosa dell’abbandono del suo stato precedente. Così, secondo la parola dell’apostolo Paolo, portiamo costantemente in noi alla volta la morte e la risurrezione di Gesù. Percepiamo bene nelle domande che si pongono a noi ogni giorno che la nostra vita interiore si rigenera sulla base di quello che si disfa continuamente in noi (speranze deluse, pretese vane, credenze illusorie ecc.). Il tema della sofferenza e quello della speranza sono legati intimamente nella vita del credente, e la stessa tensione va osservata nella storia umana complessiva.
Riallacciamo ora i fili del nostro proposito : invece di liberarci dall’angoscia della morte con la sola credenza in una vita futura, tentativo che si rivelerebbe insoddisfacente, il cristianesimo ci rimanda alla persona di Gesù, sorgente e modello di vita per il tempo presente. Così la risurrezione si manifesta quale potenza di vita che partendo dalla figura di Gesù sorge già ora nel cuore della vita presente e vi lascia trasparire le premesse del regno di Dio. Da una parte questa visione ci libera dal pensiero mortifero che la vita attuale possa contenere stricto sensu tutto ciò che esiste, rendendo poco chiaro il progetto di un Dio che avrebbe dato all’esistenza degli esseri anelanti alla vita per poi progettarli definitivamente nel nulla. D’altra parte questa stessa visione ci impedisce di abbracciare una qualunque forma di rappresentazione dell’aldilà che andrebbe oltre alla speranze della fede. Siamo invitati a riconoscere con umiltà i limiti della nostra ragione, incapace di immaginare i contorni di una vita al di fuori dei quadri spaziali e temporali che segnano la nostra terrena condizione.
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