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Dio è amore?

Dobbiamo senza dubbio maneggiare questa affermazione con prudenza e parsimonia. Non può essere, come ahimè troppo spesso oggi, la frase del credente che cerca di rassicurare se stesso quando la realtà si mostra incomprensibile e severa. Non può essere la frase-ricetta che dispensa dal riflettere e capire realmente una situazione di aberrante sofferenza.

Potremmo riprendere qui tutti gli argomenti della teodicea (che cerca di conciliare l’apparente contraddizione tra l’esistenza del male e l’amore di Dio), certamente. Altri l’hanno già fatto e ci hanno fornito delle piste di comprensione. Ma non è l’argomento di questa riflessione. Vorremmo soprattutto applicarci a discernere quella che potrebbe essere una parola “giusta” di fronte a colui che soffre o non percepisce alcun segno dell’amore di Dio per lui.

La presenza amante di Dio non si può annunciare sola. Noi cogliamo che è sbilenca, incompleta, incomprensibile se non è accompagnata ad un altro annuncio, un’altra affermazione: quella della giustizia di Dio. Dio è amore… ma Dio è anche giustizia.

Cosa sarebbe, in effetti, un amore senza giustizia? Sarebbe solo una consolazione a buon mercato, le dimissioni davanti al male e al malessere, uno sdolcinato sentimentalismo. Tutti gli “arroganti” e i “carnefici” della terra potrebbero continuare in tutta tranquillità il loro funesto lavoro. A loro la riuscita e il successo, ai disgraziati l’amore di Dio! Il mondo sarebbe davvero ben messo e ciascuno vi troverebbe il suo tornaconto.

Cosa sarebbe invece una giustizia senza amore? Sarebbe cieca e finirebbe per essere disumana. Non ci sarebbe nemmeno più bisogno di giudici perché tutto si ridurrebbe ad una forma di automatismo in applicazione di semplici regole. Il faccia a faccia umano sarebbe escluso, e in questo caso non ci sarebbe nemmeno più bisogno di Dio. La giustizia sarebbe immutabile e atemporale, avulsa da ogni contesto.

Ora resta da sapere come conciliare o associare questi due elementi, che possono parere contrari e antagonisti, che sono amore e giustizia. In quale modo il Dio d’amore può allo stesso modo manifestarsi come il Dio di giustizia?

Una soluzione facile e classica consiste nel rimandare o risospingere la giustizia di Dio in un al di là della vita, un altrove o un più tardi. Essa si eserciterebbe quindi in un tempo e in uno spazio che ci sfuggono, in una eternità in cui Dio può ristabilire ciò che l’esistenza comporta di incompiuto o di ingiusto. In questa eternità di là da venire Dio eserciterebbe la sua giustizia ponendo gli eletti da una parte e i dannati dall’altra. Noi conosciamo bene questa idea che, se può costituire una forma di consolazione, è servita a lungo come appello alla sottomissione e all’accettazione di situazioni obiettivamente inaccettabili. È la religione “oppio del popolo” giustamente denunciata.

Un’altra soluzione consiste nel fare appello ad una forma di mistero, di cose nascoste che sfuggono alla nostra comprensione e alla nostra coscienza. Nel segreto Dio eserciterebbe la sua giustizia ma senza che noi ne vediamo gli effetti. I “malvagi” sarebbero solo apparentemente fortunati, mentre nel segreto subiscono la riprovazione di Dio. I “giusti” sarebbero solo apparentemente provati, mentre in realtà, nel cuore di Dio, sono i suoi pupilli.

Un’altra magra consolazione, che farebbe dell’esistenza umana una sorta di illusione o di maschera, una apparenza che non coinciderebbe con la realtà vissuta. Ma è vero che, talvolta, il credente travagliato può ricavarne una forma di conforto, di serenità, di pace interiore, anche nelle situazioni più tragiche. Dio allora eserciterebbe il suo amore o la sua giustizia solo nei cuori e nelle menti degli uomini, senza che questo si rifletta nel concreto degli avvenimenti. “Beati voi che siete poveri, perché il regno di Dio è vostro.” (Luca 6,20) Ma questo è sufficiente? C’è modo di conciliare amore e giustizia di Dio senza che ci sia bisogno di relegarli in un al di là o in una interiorità che sfuggono alla concretezza del vissuto?

Alla fine, la questione è ”l’abitazione” di Dio. Dove risiede? Dove si manifesta? Sta negli avvenimenti della vita, nell’aspetto materiale del vissuto? O forse sta solo nello spirito, nel cuore del credente? Questo dibattito non è di oggi! Già gli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento testimoniano di questo interrogativo, e possiamo pensare che quello che ha diviso il giudaismo classico dall’Evangelo dipenda da questa questione. Gesù di Nazareth, seguendo in questo le orme dei profeti, ne ha pagato per intero il prezzo.

In altri termini, il Regno di Dio ha a che fare con la realtà del mondo o solamente con la mente e il cuore del credente? Questi dilemma è sentito alla stessa maniera all’interno del giudaismo come del cristianesimo. Evidentemente, potremmo affermare che l’una cosa trascina l’altra e conduce all’altra, che la conversione interiore trova, ad un dato momento, una traduzione concreta, e che si incarni in un impegno e in atteggiamenti che intendono trasformare il mondo. Ma c’è bisogno della prima per avere la seconda? Ci vuole la conversione del cuore come presupposto alla trasformazione del mondo? La materia è allora sottomessa allo spirito? Non è così sicuro.

Una delle soluzioni avanzate per risolvere questo conflitto consiste, per alcuni, nel fare appello ai miracoli. Il miracolo diventa allora l’irruzione straordinaria e inattesa dell’azione di Dio nella realtà. Ma bisogna attendere un miracolo per percepire e provare l’amore di Dio? E se il miracolo non arriva, significa che Dio non ama? Ancora una volta la soluzione è sbilenca.

Immaginiamo dunque l’idea seguente: l’amore, come la giustizia di Dio, non si può percepire, provare, sperimentare, che attraverso degli intermediari, e mai, se non in maniera eccezionale, direttamente. È essenzialmente attraverso gli altri che colui che è in attesa, colui che ha sete d’amore e di giustizia, può discernere quella presenza di Dio al suo fianco.

Lo comprendiamo agevolmente quando è in gioco l’amore. È attraverso i gesti d’attenzione, le buone parole, l’ascolto e la tenerezza di coloro che ci circondano o ci fanno visita che possiamo comprendere come quelle presenze rinviino ad un’altra presenza, un’altra attenzione, quella di Dio stesso.

In materia di giustizia le cose sono forse meno agevoli, ma noi la pensiamo in modo del tutto concreto. L’esperienza della giustizia di Dio si serve degli stessi intermediari e si può declinare, crediamo, con degli esempi: con la somministrazione di un farmaco adeguato che condurrà alla guarigione, con la sostanza che darà sollievo al dolore, con l’attenzione di un insegnante che percepisce un potenziale nel suo allievo e lo spinge a superare la sua condizione e il suo contesto, con la disponibilità di un lavoro che si offre improvvisa… tanti segni, spesso certamente tenui e minimi, ma che testimoniano (noi lo crediamo) dell’esercizio della giustizia di Dio nella realtà del mondo. Non si tratta di miracoli nel senso classico del termine, ma di ogni cosa che può essere inattesa, insperata… e che trasforma improvvisamente il vissuto nel senso dell’esercizio di una “giustizia” che possiamo percepire come proveniente da Dio.

Questi piccoli avvenimenti del quotidiano possono apparire risibili, confrontati con la potenza e la grandezza di Dio. Ma la forza di Dio non si manifesta forse nella debolezza (2 Corinzi 12,9)? Non c’è nessuna “onnipotenza” miracolosa. L’azione di Dio si cala nell’umano e il suo dinamismo creatore ci anima e ci aiuta a vincere paure e disperazioni.

L’amore di Dio si avverte attraverso dei piccoli segni. Perché sarebbe diverso con la sua giustizia?

Evidentemente, qui possiamo vedere solo quello che riguarda l’umanità attiva, ma il credente discerne nei segni d’amore la presenza di Dio. Perché non può ugualmente vedere negli avvenimenti e nei segni di “giustizia” l’azione di Dio nel mondo?

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