Ciascuno porta il “cielo” nel suo nome per significare che è altrove, intangibile. Li si immagina anche in cielo, questi dei, li si crede dominare il mondo, potenze maestose, ai confini dell’universo di cui padroneggiano tutti i dettagli. E cosa c’è di meglio del cielo per dire l’immensità insondabile che sorpassa ogni comprensione? La fede cristiana, quella in un Dio incarnato, che non è più da cercare in cielo ma sulla terra, è una rivoluzione. “Ora, questo «è salito» che cosa vuol dire se non che egli era anche disceso nelle parti più basse della terra?” scriverà Paolo (Efesini 4,9). Ma si può ancora credere nell’invisibile quando, in Gesù, tutto diventa visibile? Marx non si è ingannato, lui che dirà che questo movimento del Dio cristiano che diserta il cielo per la terra conduce naturalmente all’ateismo. Il cristianesimo è l’utopia realizzata; in Gesù tutto è dato, compiuto, realizzato. Il cielo è vuoto, non c’è più un retromondo, è ormai sulla terra che tutto avviene e si gioca. Si tratta di un vero disincantamento che, Marx ha ragione, ci rende atei a confronto di certe immagini di Dio. Si pensi a quel Cristo “pantocrator” delle rappresentazioni bizantine che, dall’alto del suo splendore celeste, dirige tutto. Esprime veramente il Dio di cui Gesù ci ha parlato? Svuotando il cielo, il cristianesimo ci libera anche di ogni deriva verso l’irreale. Ci riconduce sulla terra, là dove si unisce a noi un Dio senza mito, un Dio senza barba, quello del desiderio, del risveglio e della creatività, questo Dio che, in incognito, ci anima attraverso tutto ciò che continua a renderci vivi fino alla morte.
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