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Cristianesimo e religioni: rottura o continuità ?

 Nella sua Cronaca delle tredici lune ( Chronique des treize lunes ), un “ diario “ tenuto lungo l’anno 2008, lo scrittore svizzero francese Raphaël Aubert, un tempo studente di teologia, si pone, di sfuggita, la seguente domanda:

“ Perché, durante quasi 5000 anni, quello che ha costituito la grande filosofia egizia […] che non parla quasi mai di resurrezione, ma che non di meno ha risposto alle aspirazioni dei fedeli ed ha, per così dire, perfettamente funzionato, sì, perché quel sapere sarebbe abolito? Perché sarebbe caduco? Perché un uomo, chiamato Paolo, e dopo di lui la Chiesa, avrebbe deciso così? Perché ciò che dice l’Hinduismo dell’infinita gerarchia di un divino infinitamente complesso e che si fonda nello stesso tempo su Brahma l’Unico, perché la saggezza dei veda, la più antica del mondo, […] perché tutto questo sarebbe senza valore semplicemente perché un uomo su una strada di Damasco ha avuto, un giorno, una visione? Ebbene, perché? Stentando a crederlo, ho sempre più difficoltà ad ammetterlo. “

La questione non si pone solamente a proposito della resurrezione, ma anche, molto semplicemente, a proposito di Gesù: la sua posizione e il suo messaggio implicano una rottura radicale con le saggezze e le religioni che li hanno preceduti, o si iscrivono, al contrario, in una certa continuità con esse? Questa questione non è nuova. È stata posta dagli albori dell’era cristiana e non cessa di essere di attualità fino alle colonne di Évangile et liberté: i lettori, tanto o poco attenti, del nostro periodico che si vuole “ protestante liberale “ avranno probabilmente notato che, tra i nostri collaboratori, alcuni puntano l’attenzione sull’assoluta novità di Gesù e del suo Evangelo, altri al contrario sul fatto che questo Gesù è detto il Cristo perché manifesta l’emergenza, certamente incomparabile, di una relazione con Dio che è una costante della storia umana.

In termini scolastici, è tutta la problematica del “ Logos “, della “ Parola “ di cui l’inizio del vangelo di Giovanni afferma che essa era “ al principio “, fin dall’origine di tutto, e che essa “ si è fatta carne [e] ha abitato in mezzo a noi “ nella persona di Gesù. Le teologie liberali rientrerebbero dunque nella corrente teologica detta del “ Logos spermatikos “, vale a dire della Parola che genera tutte le cose fin dall’origine di tutto ciò che è, o piuttosto vedrebbero nel comportamento e nelle parole verosimilmente le più autentiche di Gesù di Nazareth una esigenza imperiosa di rompere finalmente con le vecchie e sempiterne abitudini “ religiose “ dell’umanità?

Per citare dei nomi, ma semplificando molto il loro pensiero, Harnack (1851-1930), Schweitzer (1875- 1965) o Bultmann (1884-1976) parteggerebbero per la rottura, Schleiermacher (1768-1834), Sabatier (1839-1901) o Tillich (1886-1965) sarebbero piuttosto dei conciliatori. Tra questi teologi comunque queste non sono che delle tendenze: sanno che non si può essere interamente da una parte o dall’altra, perché vi è sempre e necessariamente una tensione tra questi due poli o queste due opzioni del pensiero cristiano. Prima di tutto è importante prenderne coscienza; poi ( il più delle volte dipende delle circostanze in cui ci si trova ) porre l’accento su un aspetto piuttosto che sull’altro, senza mai escludere che l’altro possa avere ragione. Il vecchio dibattito tra saggezza e profetismo non giungerà mai a una fine, particolarmente in seno a un protestantesimo sempre tentato di far prevalere le folgorazioni profetiche sulle esigenze riflessive del saggio. E l’apostolo Paolo? Con la questione che si è posto a questo proposito, Raphaël Aubert ricorda giustamente che il suo pensiero, almeno per come lo ha compreso, rappresenta solamente un aspetto della concezione cristiana. È un’eresia necessaria, bisogna essere capaci di mettere anch’essa in discussione.

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