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Chi sono i vostri nemici?

“Protestare” significa al tempo stesso “contestare” e “attestare”: denunciare ciò che è contrario alla speranza di Dio e ferisce la nostra umanità; attestare ciò che onora Dio e sviluppa la nostra umanità. Contestare quello che uccide, attestare quello che fa vivere. Ne deriva che la vita cristiana consiste nell’identificare i nemici che devono essere combattuti per lasciare emergere le dinamiche che concernono la benedizione. Ai giorni nostri, quali sono i nemici? Ne individuo tre contro cui dobbiamo mobilitarci con ardore: l’indifferenza, l’apatia e l’alienazione.
L’indifferenzaL’indifferenza riguarda tanto le persone quanto le situazioni. Subentra quando non vediamo gli individui che ci circondano, i quali si fondono in una massa anonima. Queste persone sono come vapore, una parola che in ebraico evoca Abele, la cui vita pesa poco nella coscienza di Caino. Come arriviamo a non vedere più colui e colei che la Bibbia designa come nostro fratello e nostra sorella? Da una parte penso che la ricerca della trasparenza ad ogni costo sia all’origine di questo fenomeno. La trasparenza, invocata da molti per moralizzare la vita pubblica, ha un effetto particolarmente perverso: rendere l’altro finalmente trasparente. Cosa resta di lui, di lei, una volta che ha messo tutto in piazza? Ancora peggio, quando la moda detta di mostrare tutto sui social network e nei media, non ci si può stupire che a un bel momento non ci sia più niente da scoprire e da vedere. Il paradosso è che a forza di mostrare tutto si diventa invisibili, annegati tra i flutti delle immagini. Quali persone si possono ancora vedere nelle città strapiene di abitanti? Quelle che si dissimulano. Le donne con il velo sono quelle che attirano di più gli sguardi, mentre il velo dovrebbe servire proprio a stornare gli sguardi.

La trasparenza fa scomparire gli individui, come il vapore che sale in alto, e conduce all’indifferenza, allo sguardo che non vede più, come i discepoli interpellati da Gesù (Marco 8:18). Sparire dal campo visivo dell’altro significa morire. Questo è insopportabile nella prospettiva cristiana, dato che il passo successivo è non prestare più attenzione alle situazioni di ingiustizia, ai meccanismi di violenza che non possiamo discernere se non vedendo chi ne è vittima. Bisogna dunque protestare contro l’indifferenza protestando per la densificazione degli individui, ovvero ridando loro peso e consistenza.
L’apatiaDall’indifferenza nasce sovente l’assenza di desiderio. A che pro impegnarsi per delle cause, nelle associazioni di volontariato, perché prendersi delle responsabilità? Quando si perde il gusto degli altri, la vita stessa diventa insipida e suscita ben poco interesse. Certo, l’attualità non fa che disgustarci e ci sono delle profonde ragioni per rimanere sconcertati dalle manovre di basso livello degli uni e dalla cupidigia degli altri. Dicendo “È tutto un marciume” cessiamo di interessarci alla politica, dicendo “È una manica di incompetenti” non abbiamo più fiducia nella scuola, dicendo “C’è troppa corruzione” siamo diffidenti verso la giustizia, dicendo “È una banda di ipocriti” ci allontaniamo dalla religione; ma non per vivere altre esperienze, per prenderci altre responsabilità, bensì per ripiegarci nel nostro universo, nel nostro bozzolo di famiglia e amici, pensando che almeno lì non rimarremo delusi. La mancanza di desiderio e di volontà, assieme all’apatia, riduce la nostra capacità di essere e assottiglia la nostra esistenza. Non rispondiamo più agli appelli di Dio rilanciati dal grido dell’umanità sofferente. Non rispondiamo più alla speranza di Dio espressa dalle domande dei bambini, dalle sollecitazioni dei nostri cari o ancora dai progetti dei nostri concittadini. Cessare di rispondere vuol dire cessare di assumersi le proprie responsabilità individuali e divenire come quell’uomo che si condanna a guardare il mondo intero che sfila davanti a lui e non è capace di prendere al volo il treno della storia (Giovanni 5:2-8).

Sarebbe bene reagire a questa apatia, a questa depressione divenuta ormai collettiva. Si tratta allora di pronunciare parole che risollevino e mettano in marcia, parole che rivelino che vi sono ancora delle cose grandi e belle da vivere. Protestare contro una vita abbandonata a se stessa che si assottiglia poco a poco significa protestare per una rinnovata curiosità e per la capacità di stupirsi e meravigliarsi. Restituire il gusto della vita non è impresa facile, è altrettanto difficile che far bere un asino che non ha sete. Tuttavia non è impossibile: un direttore dell’Istituto nazionale per la ricerca agronomica mi ha rivelato il segreto. Basta far venire un asino che ha sete: vedendolo bere, l’altro asino si metterà a bere anche lui. Non è quello che scopriamo nei vangeli? La sete di vivere di Gesù fu sufficientemente contagiosa perché i discepoli non sprofondassero nell’apatia dopo l’episodio della croce. Esiste un desiderio mimetico che può essere assolutamente positivo. Testimoniamo, con una vita entusiasta che incarna la gioia perfetta di cui parla Gesù (Giovanni 15:11), cosa vuol dire vivere alla luce dell’Evangelo. Protestare è anche questo.
L’alienazioneL’alienazione suona come un vestigio del passato che oggi non corrisponde a nessuna realtà. L’alienazione è veramente morta con la caduta del muro di Berlino e la scomparsa del marxismo? Purtroppo il fatto che non si nomini più un fenomeno non vuol dire che non sia più all’opera. È giocoforza constatare che oggi sono ancora numerosi coloro che sono prigionieri dietro sbarre invisibili. Non c’è nulla come la forza dell’abitudine che impastoia e ostacola la nostra vita. L’apatia ha come effetto il privare l’uomo di uno dei suoi fondamenti: la libertà. A forza di non vivere la libertà e di conformarsi agli altri, ogni situazione nuova e imprevista diviene fonte di profonda angoscia: si finisce per diventare prigionieri di una visione del mondo troppo ristretta come anche delle carenze affettive senza le quali abbiamo scarsa fiducia in noi stessi, o della scarsa conoscenza del mondo che di colpo diventa minaccioso. L’apatia e la mancanza di curiosità ci confinano a un frammento di vita che ci priva dell’autentica serenità. Dobbiamo accettare di non essere che l’ombra di noi stessi? Dobbiamo accettare di sacrificare l’essenziale dei nostri sogni e delle nostre ambizioni? Certo che abbiamo dei limiti, ma dobbiamo rassegnarci di fronte alle costrizioni imposte dai nostri simili? Sarebbe contrario al soffio di libertà che attraversa l’insieme dei testi biblici.

L’Evangelo proclama la liberazione dalla nostra casa di schiavitù; rifiuta il fatto che possiamo essere mal nati, che non abbiamo il nostro posto nella società degli uomini, che siamo condannati ad addossarci le colpe dei nostri avi o ad essere sottomessi ai capricci dei potenti. L’Evangelo fa crollare il determinismo, trascende ogni forma di fatalità e reintegra ciascuno e ciascuna nella sua personale dignità. Protestare contro ciò che schiaccia, contro ciò che affama, che asfissia, che acceca, che inebetisce, che defrauda, vuol dire protestare contro ciò che aliena e imbriglia la libertà di essere noi stessi. L’Evangelo ci incoraggia a protestare a favore di ciò libera dai pregiudizi e dalle ideologie chiuse su se stesse mentre ci libera dalle nostre paure, dalle nostre esitazioni e dalla vergogna di essere noi stessi e mette in libertà l’iniziativa, la creatività, il perdono, la fiducia: in altre parole, ciò che ci permette di amare di più e meglio.

L’attualità dell’Evangelo dipende dunque dalla nostra decisione di attaccarci o meno alle radici della depressione che guadagna terreno nella nostra società e di far risuonare a ogni orecchio, far contemplare a ogni sguardo, rendere disponibile a ogni mente gli slanci di vita divina che la teologia chiama “grazia”.

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