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Gli animali meritano di vivere?

Il nostro rapporto con il mondo animale è contraddittorio: se diciamo di amare gli animali da compagnia come cani e gatti, pratichiamo però un’indifferenza quasi completa per gli animali utilizzati nella ricerca e nell’allevamento industriale. Questo essere ciechi alla sofferenza ci è come trasmesso da una lunga tradizione di giustificazioni.

L’umanesimo illuminista, sottolineando i tratti caratteristici dell’essere umano – la ragione, la lingua, la cultura -, ne fa un essere superiore agli altri esseri viventi. Sul piano etico, questo significa che l’uomo è il solo a possedere una dignità inalienabile; solo all’uomo spetta il diritto di essere trattato come un fine e mai semplicemente come un mezzo. La teologia cristiana tradizionale afferma, per quanto la riguarda, che gli animali non hanno un’anima, che solo l’uomo è stato “creato a immagine di Dio” e che ha come missione “dominare la terra e tutto ciò che essa contiene”. Tale antropocentrismo conferma l’animale come essere inferiore, destituito del diritto di avere dei diritti.

In compenso vi sono dei filosofi che affermano che l’umanità non ha nessun privilegio assoluto sul piano morale nei confronti delle altre specie. Citiamo il caso di Jeremy Bentham (1748-1832), per il quale la questione non è sapere se gli animali possono ragionare o parlare, ma se sono in grado di soffrire. Peter Singer, in “Liberazione animale” (2003), si è ispirato a questa teoria per difendere una forma di giustizia nei confronti degli animali. Noi denunciamo volentieri la crudeltà verso gli animali domestici, la pratica della vivisezione nella ricerca medica, la corrida, l’uccisione dei cuccioli di foca e il commercio di pellicce, ma che ne è degli animali la cui esistenza non ha altra ragion d’essere che di diventare carne per gli esseri umani, come i polli, le vacche e i maiali?

Va da sé che queste sono forme di violenza così bene integrate nella nostra società che diventa impossibile non solo pensarle ma persino vederle. Così, l’abitudine di mangiare carne e l’incapacità di considerare che se ne potrebbe fare a meno fa tacere in noi la “vocina della coscienza” di cui parla Rousseau. L’estrema banalità del male che rappresenta la sofferenza e la morte di milioni di animali non riesce a commuoverci, tanto siamo convinti che quelli che soffrono e muoiono sotto il giogo dello sfruttamento non fanno altro che corrispondere alla destinazione che è la loro, per natura. L’animale non ha una vita sua, non è che merce. Il suo cadavere squartato è reso irriconoscibile nel passaggio tra il mattatoio e la macelleria, quando viene trasformato in bene di consumo.

La morte indolore non è una soluzione poiché, anche quando non si fa soffrire l’animale ucciso, lo si priva comunque di un bene fondamentale, ovvero la libertà di vivere. Togliendo la vita a un essere, gli si toglie il potenziale di compimento della vita. Ogni creatura dovrebbe avere diritto alla vita.

È questo che propone Albert Schweitzer quando racconta, in “La mia vita e il mio pensiero” (1983), come, navigando sul fiume Ogooué nella luce del sole calante, scorse un gruppo di ippopotami che la sua barca aveva disturbato e disperso. Alla vista di quegli esseri bizzarri germinò in lui l’idea che l’etica pura non aveva altro fine che la vita stessa. L’idea del “rispetto della vita” ha il suo punto di partenza in questa visione. Questo rispetto della vita, allargato a tutti gli esseri viventi, costituisce il fondamento morale del vegetarismo.

Queste considerazioni danno al concetto buddhista di compassione verso tutti gli esseri una portata positiva molto più universale di quello della carità cristiana limitata ai soli esseri umani. Del resto, tale grado di sollecitudine è incompatibile con l’Evangelo? Il messaggio di Cristo, che si rivolge a chi è debole e senza difese, non dovrebbe riguardare tutti gli esseri viventi, senza limiti?

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