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La grande parabola

 Il mio punto di vista è il seguente: la Bibbia nella sua totalità non è né un insieme di miti o di leggende come dicono alcuni, né la Parola di Dio come affermano altri, bensì una grande, complessa e significativa parabola.

Devo ancora esporre quello che intendo dire, perché il lettore potrebbe dedurre, a torto, che per me ciò che la Bibbia racconta è falso. Facendo questo, senza dubbio insisterò su delle cose evidenti: infatti la mia esperienza mi dice che, quando c’è di mezzo la religione, quello che viene abitualmente considerato evidente può trovarsi nascosto…
La parabola: inchiostro su cartaIl linguaggio è uno dei mezzi che l’essere umano si è dato per comunicare informazioni e senso con l’ausilio di elementi molto diversi; nel caso della parabola si tratta di elementi verbali, orali o scritti. Ricordo che, come il quadro di Magritte che rappresenta una pipa non è una pipa, o come la parola coltello, per esempio, non è un “coltello”, il linguaggio non è della stessa natura di quello di cui parla. I nostri strumenti ed elementi verbali hanno in comune, tra le altre cose, di non dover essere confusi con le realtà che vengono chiamate i loro referenti, ovvero ciò a cui si riferiscono, le cose che devono significare e far conoscere; questo è il loro scopo. Quello che voglio dire affermando che la Bibbia è una parabola è che non deve essere confusa con ciò che essa mira a comunicare, a far conoscere, a significare.

È chiaro così che essa mira, per dirlo in due parole, a significare la relazione tra il divino e il nostro mondo: Dio e noi. Io non ho personalmente beneficiato di alcun contatto diretto con il divino, per quanto ne so, nemmeno mentre leggevo la Bibbia! Il divino di cui ho conoscenza e sul quale mi appoggio, sul quale faccio affidamento, mi è in ogni caso stato significato dalla Bibbia o dalle persone che l’avevano letta.

Un primo punto è dunque che il dio della Bibbia non è nella Bibbia, ma nel fatto che essa lo significa. Vado oltre: il dio che figura nella Bibbia è un personaggio letterario dovuto all’arte di coloro che ne hanno scritto. Ecco perché, come scriveva poco tempo fa il professore Frank Michaëli, egli è un “Dio a immagine dell’uomo”. Un personaggio così multiplo nelle sue diverse apparizioni letterarie e nelle sue varie avventure che difficilmente può evocare e significare il Dio totalmente altro che nessuno di noi ha mai visto.

Prendiamo come esempio un racconto che tutti considerano una parabola, la storia del figliol prodigo e del figlio obbediente (Luca 15:11-32). Appare con chiarezza che, al di là del racconto propriamente detto, qui vengono significate determinate relazioni tra Dio e gli esseri umani. Non di meno, evidentemente Dio non è padre degli esseri umani nello stesso senso in cui il padre della parabola è il genitore dei suoi due figli.

La stessa cosa per l’insieme degli elementi che troviamo nelle Scritture. Sono degli scritti. È inchiostro su carta. Vorremmo che divenisse parola orale e vorremmo un lettore provvisto di voce e di fiato.
La parabola mira a far venire quello che diceIn secondo luogo la parabola è un racconto, ma con una specificità radicale in confronto ad altri tipi di racconto, al punto che il termine “parabola” non viene quasi usato al di fuori della letteratura legata alla Bibbia.

È ovvio ed evidente che la parabola racconta una storia; un punto in comune con altri generi letterari antichi come il mito, il racconto o la leggenda. Ma, pur essendo una narrazione, non è totalmente comprensibile per chi la legge o l’ascolta, poiché, se la maggior parte delle volte il filo del racconto è facile da comprendere, il legame che intrattiene con ciò a cui si riferisce, con quello che sembra voler significare, non è evidente. Detto in altre parole, se comprendiamo bene quello che la parabola racconta, non ne afferriamo sempre la motivazione, o se preferite, ciò di cui parla. A questo proposito resta sempre valido il motto: “Se qualcuno ha orecchie per intendere, intenda!” (Marco 4:23)

Del resto, nelle stesse narrazioni evangeliche vediamo che le parabole non sempre mirano a dare un’impressione di chiarezza e facilità. Leggiamo infatti che, a seconda dei casi, i sapienti comprendono le parabole male come gli ignoranti, oppure gli ignoranti comprendono le parabole bene come i sapienti.

Mi spiego: ci sono due situazioni possibili. Nella prima, abbiamo a che fare con persone che, ignoranti o istruite, chiedono qualcosa, sono in ricerca. In questo caso la persona istruita può trovare più difficoltà, forse perché deve lottare contro le varie implicazioni del suo sapere, o perché la sua stessa ricerca è oberata dal sentimento della sua importanza.

Nella seconda, abbiamo a che fare con persone che non sono in ricerca, e in questo caso l’incomprensione è egualmente ripartita tra sapienti e ignoranti.

Il primo caso può essere illustrato da questa parola detta a Nicodemo: “Tu sei maestro d’Israele e non sai queste cose?” (Giovanni 3:10). Questa frase è pronunciata dopo la breve parabola del versetto 8: “Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito”.

Il secondo caso è illustrato dalla parabola del seminatore. In Marco (4:3-20) essa suscita l’incomprensione generale, della folla come dei discepoli. Il fatto è che, in questo vangelo, i discepoli non sono più svelti nel comprendere degli altri. In Matteo (13:4-23), al contrario, i discepoli sono in grado di comprendere, ma non la folla, e Gesù riassume la situazione con queste parole: “A chiunque ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza; ma a chiunque non ha sarà tolto anche quello che ha”.

Se chi ascolta non si interroga sulla vita, non si apre, non chiede, non desidera, la parabola, pur indirizzata a lui, non gli parla.

L’esempio della parabola del seminatore vale su un piano più generale. Tutti gli ascoltatori hanno certamente seguito il racconto delle avventure dei semi, ma nessuno sembra aver capito a cosa si riferiva. Perché allora Gesù racconta questa storia? Perché solo chi cerca veramente una risposta la trova. In altre parole, mettendo in ricerca l’ascoltatore, la parabola mira a fare di lui… la buona terra in cui la parola porta frutto! Quale frutto? Di che tipo? Non è importante precisare: importante è mettere in strada l’ascoltatore che era lì per cercare qualcosa. Ecco cosa può fare la parabola.

Qui rischiamo di vedere un esempio di quello che gli specialisti del linguaggio chiamano un discorso performativo, vale a dire un discorso che fa ciò che dice, come quando diciamo “La seduta è aperta!”, ma non è così. La parabola non fa quello che dice, lo fa fare, o piuttosto lo fa venire, e in una certa misura la fa inventare, creare; essa apre una storia possibile per chi la ascolta con vere orecchie.

Estrapolo da questo esempio l’affermazione seguente, che considero una definizione: la parabola è quel racconto che mira a far venire quello che dice, anche se non dice quello di cui parla.

Quindi, ed è una cosa fondamentale, affermando che la Bibbia appartiene a quel genere letterario che io chiamo parabola, affermo che essa non dice Dio nel suo essere, ma mira a farlo venire, a modo suo, al cuore dell’essere umano e dell’umanità.
Quando si entra nella parabola Proseguo insistendo sul fatto che la parabola può comporsi di elementi narrativi molto diversi, di cui alcuni possono rimandare a fatti reali, storici; la maggior parte è comunque legata al contesto (culturale, sociale, economico, politico) nel quale la parabola è nata. Non tutto quindi è inventato di sana pianta, al contrario! E non tutto è pura e semplice narrazione.

Ma se non tutto è racconto nella parabola, se possiamo trovarvi degli elementi appartenenti ad altri generi letterari, questi elementi sono inclusi nella cornice narrativa e in funzione di questa acquistano il loro senso, il tutto subordinato al modo generale della parabola. È la parabola ad essere importante, a qualificare ciascuno degli elementi che la costituiscono in tratti coerenti e significativi della sua economia generale.

È così per esempio nella parabola dei vignaioli omicidi (Matteo 21:33-44 e paralleli), che comprende la citazione di due testi dell’Antico Testamento, un oracolo profetico (“Egli sarà […] una pietra d’intoppo, un sasso d’inciampo” Isaia 8:14) e un passo di un salmo (“La pietra che i costruttori avevano disprezzata è divenuta la pietra angolare” Salmo 118:22). Anche se non narrativi, questi due elementi letterari sono diventati parti integranti della parabola raccontata.

Possiamo trovarlo in maniera molto più ampia nella parabola del povero Lazzaro (Luca 16:19-31): non solo troviamo Abramo, ma siamo rinviati a quasi tutta la Bibbia ebraica: “Hanno Mosè e i Profeti, che li ascoltino”. Qui vediamo che la parabola include e raccoglie, in maniera evocativa, testi legislativi e profetici oltre che narrativi. E non solo li evoca, ma rinvia il pubblico al loro contenuto, di modo che solo conoscendoli possiamo ricevere e comprendere la parabola: quei testi ne fanno parte.

Faccio notare allora che si può raccontare tutta la Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse: è una delle sue specificità, che la distingue per esempio dal Corano. Ma nel corso della narrazione sarà necessario far intervenire nel racconto degli elementi non narrativi: poetici, legali, sapienziali, storici etc.

Più difficile è trovare un esempio di fatti storici nelle parabole evangeliche. Noteremo comunque che esse contengono numerosi elementi di natura storica, per quanto possano essere inventati. Così, per esempio, i vangeli non inventano il fatto che i braccianti agricoli palestinesi dell’epoca romana attendevano la mattina in un dato luogo i caporali dei proprietari terrieri che venivano a ingaggiarli per la giornata (Matteo 20:1-16). Questa era una delle conseguenze della colonizzazione, che aveva creato un sistema di sfruttamento agricolo nel quale i piccoli contadini erano stati privati delle loro terre ed erano divenuti dei proletari.

Ma quello che questo punto ipotizza va ben oltre: permette di rendere conto del fatto che dei racconti inventati come quello di Giobbe, di Ester o di Giona nella Bibbia siano stati messi sul medesimo piano dei racconti più o meno storici che troviamo per esempio nelle Cronache. Permette anche di capire come, inversamente, certi avvenimenti storici abbiano potuto rivestire valore di parabola.

Ed è in questo modo che l’esperienza umana, esistenziale, dei diversi protagonisti acquista un senso. Mi spiego: la Bibbia comprende anche dei racconti che riportano i detti e le gesta di uomini e donne che hanno voluto, voluto assolutamente, per così dire nello stile delle parabole, figurare nella parabola. Questo si spiega da sé se accettiamo l’idea che l’insieme della loro esistenza era, secondo loro, già significato nel piano della grande parabola biblica, e provvisto di senso in funzione del solo punto di vista della parabola. Tali sono i profeti, tra gli altri.

Così, alcuni prendono posto in tutta naturalezza nella narrazione che si sta elaborando nel corso dei secoli: quello che si dice fare la storia! Altri invece non vi si inseriscono, e vengono chiamati per esempio falsi profeti. Costoro non hanno afferrato il modo di agire della parabola, modo che è tutt’uno con il suo senso.

Nella misura in cui la parabola fa venire ciò che dice, o piuttosto ciò di cui parla, ciò che instaura con il linguaggio, penso che si possa perfettamente comprendere l’inclusione della carne e delle ossa, delle storie personali o collettive, nell’elaborazione della narrazione. Ecco cosa, in un linguaggio diverso che tende troppo facilmente al dualismo di anima e corpo, è stato chiamato incarnazione. Ecco cosa, in ogni caso, la distingue assolutamente dal mito, dalla leggenda o dal racconto, di cui nessuno ha mai desiderato divenire membro attivo, se non per gioco.

Ecco come tutto un popolo ha potuto costituirsi protagonista della narrazione biblica, non solo a parole ma a forza di sperma e di ovulazioni, di sudore e di sangue.

Sempre in questo modo lo “spirito” della narrazione ha potuto dire dell’uomo Gesù: “Questo è mio figlio”, riprendendo così l’antico tema del legame paterno che si supponeva Dio stabilisse con il re d’Israele (Salmi 2:7 ripreso da Matteo 3:17 e testi paralleli). Quello che qui viene chiamato spirito – lo Spirito – è una maniera di percepire l’insieme delle implicazioni di questa storia in quanto essa significa la possibilità di una relazione positiva degli esseri umani con Dio. Ne potrà così seguire una storia tutta da fare.

Così dunque milioni di donne e uomini hanno potuto dirsi figli di uno dei personaggi chiave della parabola, Abramo, oppure sottomessi, con Mosè, alla Legge del Signore della parabola. Molti altri hanno potuto sentirsi figli del Padre della parabola, discepoli e amici del Figlio della parabola, animati e consolati dallo Spirito della parabola. Questa parabola significa precisamente il legame che unisce il divino al mondo delle nostre percezioni. Lo significa, e lo qualifica finalmente come un legame d’amore unilaterale e primario.
Chi esce dalla parabola cambia dioLa parabola biblica si limita dunque a un certo tipo di linguaggio umano, allo scopo di significare quello che non è dell’ordine del linguaggio umano. Così facendo afferma semplicemente che uscire da quel tipo di linguaggio, da quel modo, conservando però la stessa intenzione, sarebbe impossibile. È una legge conosciuta da ogni artigiano del linguaggio: quando si tratta di creazione letteraria, non si dice la stessa cosa quando la si dice in altro modo. Si afferma dunque che questa realtà che non è dell’ordine del linguaggio umano è indicibile… salvo ricorrere al linguaggio della parabola. Detto più semplicemente: il Dio di cui parla la Bibbia, il Dio che la Bibbia dice, è il Dio… biblico.

Questo la dice lunga a chi è in ricerca. Gli dice: “Quanto a Dio stesso, nel suo Essere, sappi che la sola cosa che gli importa è che tu entri nella parabola come uno dei protagonisti, perché quando in quelle Scritture si parla di Dio, è della tua storia, è di te che si parla”.Tanto è vero che ciò che è importante nel Libro “non è quello che è detto, ma quello che fa e fa fare” come scriveva il filosofo Jean-François Lyotard (1924-1998) a proposito dei libri in generale.

Ma se la Bibbia si limita al suo modo parabolistico per significare il divino, questo vuol dire che dovremo assolutamente contentarci di questa limitazione, autorizzati e invitati come siamo a creare liberamente il nuovo a partire dalla vecchia parabola. Vi è un’arbitrarietà al di fuori della quale non siamo più nello spazio biblico, nella fede biblica. La cosa è simile a un gioco di società: se si cambiano arbitrariamente le regole si cambia gioco, o lo si distrugge.

Questa limitazione, che permette la significazione del messaggio, è la fonte primaria dell’altro limite che è il canone biblico, vale a dire la lista e il contenuto dei libri che compongono la Bibbia; essa rappresenta l’origine e la legittimazione della determinazione arbitraria dei testi da parte di certe comunità umane, come la Sinagoga e le Chiese. Questa determinazione la chiamiamo arbitraria non nel senso che sarebbe operata per ukase o capriccio, ma nel senso che costituisce una regola del gioco.

Di qui la necessità di un letteralismo che non è fondamentalismo, al contrario, ma che consiste in una regola di lettura che i credenti, insieme, si accordano di rispettare, per poter trarre liberamente dal testo quello che occorre per vivere meglio.

Un corollario di questo letteralismo è che non sono i risultati scientifici della ricerca biblica che interessano in primo luogo i credenti, anche se questi risultati possono e devono illuminare il testo nel libero utilizzo che i credenti faranno della loro lettura. Si tratta infatti di vedere in questa lettura un rapporto diretto, preferibilmente collettivo, con le Scritture. Come Gerusalemme “[è] costruita come una città ben compatta” (Salmo 122,3), le Scritture sono in sé stesse un’opera letteraria concertata.

Le Scritture non sono né le briciole di informazioni anteriori alla loro fissazione, raccolte dagli specialisti, né il funzionamento di strutture soggiacenti che altri hanno portato alla luce, né l’una o l’altra delle ricostruzioni che gli uni o gli altri hanno elaborato, né una sfilza di versetti considerati come regole da imporre a se stessi o ancora peggio agli altri.

Essere nella fede biblica, la fede di Abramo, di Mosè, di Davide e di Geremia, la fede di Gesù, vuol dire porsi nella parabola biblica e giocare il suo gioco.
Il Soffio della parabolaQueste riflessioni comportano una conseguenza quanto al linguaggio che si può utilizzare per designare la Bibbia. Se essa è un parabola, non è la Parola di Dio, bensì la significa. Lo fa attraverso i mezzi pratici della scrittura. Ecco perché sarebbe meglio, per i credenti, dire “sante Scritture” invece di “Parola di Dio”.

Quando, dalle scritture, gli elementi biblici divengono parole, vale a dire quando sono portati dalla voce, dal soffio, dalla presenza, dall’azione o ancora dalle istituzioni di esseri umani viventi, può accadere allora che si assista allo schiudersi di una Parola di Dio. Ma non bisogna confondere le cose; una parola è una parola, una scrittura è una scrittura. La confusione del linguaggio porta con sé quella degli spiriti, delle azioni e delle istituzioni.

Non rientra nelle nostre competenze sapere per quali mezzi accade che le sante Scritture siano in grado di significare ciò che viene da Dio. È precisamente un affare di fede, vale a dire di fiducia assoluta nell’arbitrario. In ciascuno di noi, l’origine di tale fiducia, se questa ha a che fare con lo Spirito della parabola di cui parlavo, resta tuttavia un mistero nascosto in Dio. Ma per quanto ci riguarda hic et nunc, è nostra responsabilità di credenti far schiudere la Parola di Dio a partire dalle Scritture.

“Mettere in pratica la Parola di Dio” non significa obbedire alle diverse ingiunzioni che possiamo trovare nella Bibbia, bensì praticarla, vale a dire fare di essa, in pratica, una Parola vivente, creare vita che possa coincidere con la Grande parabola dell’amore di Dio. Certo, questo si fa, secondo la tradizione, grazie all’azione dello Spirito Santo. Ma questo Spirito, per noi, è quello delle Scritture… È questo che la pratica delle Scritture crea in noi, e non una sorta di ectoplasma di natura mentale o emotiva, che sorge dal limbo per dettarci la nostra lettura. È il soffio (souffle) – come si dice “avere fiato/avere dell’estro” (avoir du souffle) – che vi spinge ad aderire a questa storia e a entrarvi. “Spirito” e “soffio” sono del resto la medesima parola in ciascuna delle due lingue bibliche.

Ecco perché il primo programma del credente è di leggere le Scritture. È il suo primo servizio. È così che si impregnerà del loro Spirito, che diventerà strumento di questo Spirito per parlare, agire, comportarsi secondo lo Spirito. Per far parlare, agire, venire la Parola.

Vedete che per me la Parola di Dio non è anteriore alle Scritture, ma posteriore… e aleatoria.

Se la spogliamo delle diverse istituzioni di cui si è dotata nel corso della sua storia, quello che resta della comunità dei credenti è che si fonda in pratica su una comunità di lettura, su un patto di lettori. La messa in opera di questo patto ha conosciuto molte manifestazioni e subito molti affronti. Non siamo certi che la Parola di Dio sia solamente percepita come tale. Nondimeno essa è là, all’inizio della nostra pratica. Ed è sempre da riformare.

Proprio nella linea della Riforma, essa deve essere resa democratica. Utilizzo questo termine nello spazio di una pratica molto precisa: quella dell’esercizio comune, comunitario, popolare, scambievole e critico di quel lavoro-lotta-piacere che consiste nel far nascere una Parola dalle Scritture. Parola di vita.

È possibile che tale impresa possa restituire al popolo protestante il gusto per la lettura della Bibbia che ha manifestamente perduto.
Interiorizzare la PentecosteSi tratta dunque di vedere nella Bibbia una parabola, un racconto che aspira a far venire nel suo uditore ciò di cui parla. Mi sembra che vedere le cose in questo modo voglia dire anche permettere di superare le vecchie opposizioni dottrinali che vertono sulla maniera di recepire le Scritture. Queste discussioni mi paiono legate a concezioni il cui punto di partenza è sempre il dualismo della forma e della sostanza, affermazione che richiederebbe un altro articolo.

Ma la parabola non separa la forma dalla sostanza, il suo modo fa parte del suo senso e viceversa.

Ma non è questo il punto fondamentale, che va più in profondità:

Io credo in Dio, non nella Bibbia, tuttavia conosco Dio solo attraverso la Bibbia.

Questo almeno io affermo, anche quando mi viene opposta o proposta la realtà di altri mezzi di conoscenza del divino. Io sono in questa arbitrarietà, perché per me è la condizione molto pratica per fare l’amore di Dio, del Dio che io amo.

Per i Riformatori del XVI secolo la posta in gioco era permettere a tutti di avere direttamente accesso alla Salvezza di Dio offerta in Gesù Cristo. La Riforma era la conseguenza di una interiorizzazione radicale della Pasqua. Oggi la posta in gioco potrebbe essere permettere a tutti di far vivere lo Spirito e di mettere così in opera quella salvezza operata una volta per tutte; si tratterebbe di una interiorizzazione radicale e collettiva della Pentecoste.

Forse così i protestanti, liberati dall’antica necessità di prendere le Scritture come un libretto d’istruzioni invece che la via per far accadere, ricominceranno a leggere la Bibbia?

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