Come può un ladro accedere al paradiso e irradiarlo della sua santità? La risposta si trova nel discorso del buon ladrone sulla croce: “Non obbligarmi a condividere la sorte dei giudei” domanda a Gesù; “vedo infatti Mosè e i patriarchi in grandi triboli e il diavolo che sta gioendo a causa loro” (3.3) [Traduzione originale francese di tutti i testi: J.-D. Kaestli et P. Geoltrain, (dir.), Écrits apocryphes chrétiens, II, Paris, NRF Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), 2005]. Dalla croce il brigante vede, nel mondo dei morti, Mosè e i patriarchi che avevano riconosciuto Gesù e avevano gioito della sua venuta lamentarsi che i giudei non avevano compreso che Gesù era il Figlio di Dio. Come dice l’autore del testo, che si fa passare per Giuseppe d’Arimatea: “Pur possedendo la Legge, [i giudei] sono divenuti causa di sconforto per lo stesso Mosè: avendo irritato il legislatore e non avendo riconosciuto Dio,essi lo crocifissero.” (1.1)
Si ritrova in questo testo un discorso teologico classico dell’Antichità: Gesù era annunciato dalle Scritture ebraiche; se non è stato riconosciuto dai giudei come figlio di Dio, è perché i giudei leggevano male le loro proprie Scritture: erano ciechi. Mettendo a morte Gesù, i giudei hanno tradito le loro Scritture e servito il diavolo piuttosto che Dio. Questa rappresentazione costituisce una severa condanna del giudaismo, che in qualche modo ha rinnegato Dio. La sorte del buon ladrone illustra questa conclusione: derubando la Legge e l’Arca dell’Alleanza, ha sottratto ai giudei la Legge di Dio, che essi avevano tradito; non deve dunque essere punito, poiché ha fatto una buona azione; è invece normale che venga ricompensato accedendo al paradiso.
Pur essendo molto critico nei riguardi del giudaismo, tale discorso non rifiuta completamente il retaggio giudaico. Poiché, a volervi credere, Mosè e i patriarchi gioivano, dal mondo dei morti, della venuta di Gesù; il cristianesimo dunque realizza le profezie dell’Antico Testamento e prende sotto la sua ala le figure centrali del giudaismo che sono Mosè e i patriarchi. È proprio in loro nome che esso critica il giudaismo: il buon ladrone afferma che Mosè e i patriarchi attestano che i giudei hanno avuto torto a mettere a morte Gesù! Al contrario del giudaismo, il cristianesimo ha riconosciuto Gesù come Figlio di Dio e, così facendo, ha realizzato le attese di Mosè e dei patriarchi. Così dunque nella Dichiarazione di Giuseppe d’Arimatea il cristianesimo si afferma come l’autentico giudaismo, tradito dai giudei, e come il detentore del vero senso delle Scritture ebraiche, che si trova solo alla luce di Cristo, che esse annunciano. Il cristianesimo costituisce allora la fede autentica nel Dio annunciato da Mosè e dai patriarchi.
La Dichiarazione di Giuseppe d’Arimatea illustra così una relazione complessa con il giudaismo: il cristianesimo è in rotta con il giudaismo dell’epoca, che ha messo Gesù a morte. Per contro, Gesù è colui che era stato annunciato dalle Scritture ebraiche. Questa posizione ambigua (rifiuto del giudaismo ma non delle sue Scritture) è frequente nell’Antichità ed è stata comune nel cristianesimo occidentale fino a un’epoca recente.
I cristianesimi giudaizzantiDagli anni ’60 un movimento di fondo ha cominciato a ripensare le relazioni tra giudaismo e cristianesimo. L’ebraicità di Gesù, messa poco in luce fino ad allora, è stata riscoperta e valorizzata. Parallelamente, gli storici hanno riportato alla luce delle forme di cristianesimo che hanno una relazione molto differente con il giudaismo: si tratta dei giudeocristiani. In questa riscoperta gli scritti apocrifi cristiani hanno giocato e continuano a giocare un ruolo importante.
I problemi che i movimenti giudeocristiani pongono agli storici sono numerosi. La definizione di giudeocristianesimo è essa stessa oggetto di controversie tra i ricercatori; queste discussioni si spiegano da una parte con il fatto che le fonti conservate sono confuse, dall’altra con l’orizzonte ideologico degli esperti impegnati in queste ricerche, che sono più o meno vicini al giudaismo.
Non entrerò in queste complesse discussioni, che esigerebbero, per essere presentate correttamente, che io citi e commenti nel dettaglio varie fonti dei primi secoli. Non parlerò quindi di giudeocristianesimo, ma dei cristianesimi giudaizzanti (al plurale). Intendo con questo delle forme di cristianesimo che affermano una forte continuità con il giudaismo; la venuta di Gesù non è vista come una rottura o come una autentica novità; per alcuni di questi movimenti essa non rende affatto decaduto il rispetto della Legge giudaica. Non si tratta qui di parlare di una “antica” o “prima alleanza” e di una “nuova” o “seconda alleanza”, ma di un’unica alleanza, il cui spiegamento è cominciato prima di Gesù, in seno al giudaismo, e che è proseguita con lui e dopo di lui. Se si vuole una formula un po’ brusca, per queste forme di cristianesimo non si può essere cristiani senza essere al tempo stesso ebrei.
Il romanzo pseudo-clementinoUna delle maggiori fonti sul giudeocristianesimo è un insieme di testi apocrifi comunemente chiamato il romanzo pseudo-clementino. Si tratta di un’opera impressionante, uno dei più lunghi apocrifi conosciuti: nelle edizioni Pléiade, il romanzo pseudo-clementino occupa circa 800 pagine. È attribuito a Clemente Romano, un personaggio storico, vissuto alla fine del I secolo; l’opera si presenta come la sua autobiografia.
Pochi testi cristiani antichi sono così apertamente romanzeschi come quest’opera, costruita su un intrigo, con uno scioglimento finale. Ma non bisogna farsi ingannare da questo: se il romanzo pseudo-clementino è un’opera letteraria, contiene comunque numerose discussioni ed esposizioni teoriche; in più di un luogo, la trama narrativa lascia spazio a lunghe spiegazioni, generalmente dovute a Pietro; l’intrigo romanzesco si accompagna quindi a una iniziazione dottrinale ben sviluppata. Manifestamente, l’autore del romanzo pseudo-clementino aveva come scopo principale quello di istruire i suoi destinatari (cristiani) su degli argomenti fondamentali; non voleva distrarre il suo pubblico, ma formarlo ed edificarlo.
Il romanzo pseudo-clementino è composto da due opere, che esistevano in greco nel IV secolo.
I Riconoscimenti pseudo-clementini portano verosimilmente il loro titolo originale. Questa intitolazione si spiega con il contenuto romanzesco dell’opera, centrata attorno alla storia della famiglia di Clemente: quest’ultimo ha perduto la madre e i due fratelli all’età di cinque anni, poi suo padre all’età di dodici (Riconoscimenti, VII.8-11). Queste persone non sono morte; sono scomparse da diverso tempo, senza che Clemente abbia notizie del loro destino. Alla fine del romanzo Clemente ritrova, grazie all’apostolo Pietro, i suoi, che si convertono al cristianesimo. Dal punto di vista narrativo il romanzo pseudo-clementino è una storia di “riconoscimenti”, o per usare un termine più comune, di “ricongiungimenti”.
L’altro testo conservato è chiamato Omelie pseudo-clementine. Questo titolo non è attestato nei manoscritti ma è tratto da uno dei documenti che hanno fatto da prefazione a questo testo. Il termine “omelie” qui non significa “predicazione”, ma “conversazione, discussione”. Questo testo pretende di essere stato redatto da Clemente Romano su ordine di Pietro, e inviato a Giacomo di Gerusalemme. Clemente vi riassume gli insegnamenti consegnati da Pietro; le sue parole non sono da far circolare tra la massa, ma destinate ai soli “iniziati”, vale a dire che solo “un uomo buono e riflessivo, che abbia anche scelto l’insegnamento e che sia un fedele circonciso” (Impegno solenne, 1.1) deve avervi accesso. La menzione della circoncisione è sorprendente, e indica di primo acchito un ambiente di produzione di origine giudeocristiana.
I Riconoscimenti e le Omelie hanno una fonte comune, che viene chiamata lo “Scritto di base” e che verosimilmente è stata scritta in Siria nel III secolo. Questo testo testimonia di una strana forma di cristianesimo, sulla quale vale la pena soffermarsi.
Mosè e Gesù Per l’autore di questo “Scritto di base”, Mosè e Gesù hanno proclamato uno stesso messaggio. Ciò che li distingue sono i destinatari: Mosè è accolto dagli Ebrei, Gesù dai “gentili”, vale a dire i pagani. Siamo dunque alla presenza di una duplice “chiamata”, che viene da Dio ed è rivolta a due differenti categorie di persone (Omelie, VIII.5.1- 7.9). Una duplice chiamata… ma un unico insegnamento. Su questo punto, lo “Scritto di base” è particolarmente esplicito.
Siccome Mosè e Gesù hanno proclamato lo stesso insegnamento, i giudei non hanno veramente bisogno dell’insegnamento di Gesù: attraverso Mosè, Dio ha già formulato i suoi precetti; per i giudei che accolgono Mosè, la novità apportata da Gesù è dunque minima, in ogni caso secondaria. L’autore del testo riconosce tuttavia che Gesù ha criticato il giudaismo, ma l’ha fatto, secondo lui, su delle questioni insignificanti. Per il resto, i giudei conoscono molto bene Dio. Cito: “Poiché uno solo è il vero Dio, quello dei giudei, ed è per questo che nostro Signore Gesù Cristo insegnava che bisogna ricercare non Dio, che essi conoscevano bene, ma il suo regno e la sua giustizia […] Poiché se avessero ignorato il vero Dio, sicuramente egli [Gesù] non avrebbe mai lasciato da parte quella conoscenza, che è la principale di tutte, per accusarli di colpe lievi e insignificanti, come di allargare le loro frange, di rivendicare i primi posti nei banchetti, di pregare in piedi nei crocicchi o altre cose simili, che sicuramente, paragonate a questo torto capitale, l’ignoranza di Dio, parevano minute e lievi.” (Riconoscimenti, II.46.1- 5) Per i giudei, Gesù può dunque servire a trovare il regno e la giustizia di Dio, messi a repentaglio da scribi e farisei, ma non offre un nuovo insegnamento. Per l’autore, cristiano, del testo, le parole di Mosè conservano dunque tutta la loro validità e tutta la loro autorità.
Il messaggio di Gesù è in compenso di un’importanza considerevole per i pagani: costoro ignoravano i precetti di Dio, che fino a quel momento non erano stati loro comunicati. Una tale affermazione prende atto del debole irraggiamento del giudaismo nel mondo pagano; l’autore parte infatti dal principio che il messaggio di Mosè non ha avuto alcun impatto nella società pagana. Gesù colma dunque questa carenza; grazie a lui, i pagani ormai sanno “ciò che è bene compiere” e possono così ottenere la salvezza.
Bisogna compiere i comandamentiL’insegnamento proclamato da Mosè e Gesù mette l’accento sul compimento dei comandamenti. Quello che ci si aspetta dal credente non è prima di tutto la fede, perché essa è un dono divino; per contro, l’uomo può mettere o meno in pratica l’insegnamento ricevuto. Ecco infatti cosa attende il battezzato: “Quando sarai stato rigenerato dall’acqua, fa’ vedere in te, attraverso le tue buone opere, la rassomiglianza con quel Padre che ti ha generato. Adesso che hai riconosciuto Dio, onoralo come Padre; ora, onorarlo significa vivere come lui stesso lo vuole. Ed ecco come egli vuole che tu viva: che tu ignori l’omicidio e l’adulterio, che tu fuggi l’odio e la cupidigia, che rifiuti la collera, l’orgoglio e la vanagloria, che esecri l’invidia e consideri che tutti i vizi simili ti sono totalmente estranei.” (Riconoscimenti, VI.10).
Per “vivere come lui stesso [Dio] lo vuole” il fedele deve mettere in pratica la Legge, ovvero, in particolare, rispettare le regole di purità in materia di sessualità. Deve soprattutto onorare la “regola della castità”, che proibisce di unirsi a una donna che ha il suo ciclo, un precetto di origine biblica (Levitico 15,19; 18,19) ripreso solamente dai cristiani giudaizzanti di Siria. L’altra esigenza è di “lavare il corpo con l’acqua”, vale a dire di procedere a dei bagni rituali, prima del pasto e prima della preghiera mattutina.
Queste esigenze sono dovute a una convinzione dell’autore: “Là dove [la] purificazione esteriore della carne è trascurata, si può essere certi che non ci si prende più cura della purezza dell’anima, né della pulizia del cuore.” Detto altrimenti, chi non procede ai bagni rituali non è interiormente puro. Per l’autore del romanzo pseudo-clementino Gesù non si è opposto al ritualismo dei giudei.
È quindi il compimento dei comandamenti che fa la differenza tra coloro che saranno salvati e coloro che non lo saranno. Ciò nonostante l’autore non nega l’importanza della fede, ma il compimento dei precetti è lo scopo primario del credente. In un passaggio, l’uomo “pio” è così definito come “colui che compie le prescrizioni della Legge data da Dio” (Omelie, XI.16.2 ; cfr. Riconoscimenti, V.34.1).
Giudei e cristiani devono vivere insieme? Il messaggio di Mosè e di Gesù, che è stato proclamato a differenti categorie di persone, è quindi identico, ma questo significa che tutti coloro che l’hanno adottato dovrebbero riunirsi in una medesima comunità? Su questo punto, la posizione dell’autore è sorprendente: i giudei possono rimanere giudei, e i pagani convertiti al cristianesimo cristiani, a una doppia condizione: devono, gli uni come gli altri, mettere in pratica i precetti ricevuti e rispettare l’altro “Maestro di verità”; detto altrimenti, i giudei devono provare rispetto per Gesù, i pagani convertiti devono rispettare Mosè e applicare i comandamenti.
Questa posizione singolarmente aperta è una conseguenza logica della teoria difesa dall’autore: poiché è Dio ad avere nascosto Gesù ai giudei e Mosè ai pagani, la separazione tra giudei e cristiani è il risultato dell’opera di Dio; gli uomini non possono esserne tenuti responsabili. Resta il fatto che l’ideale, per l’autore del testo, è di riconoscere l’identità dell’insegnamento di Mosè e di Gesù; ovvero, essere al tempo stesso ebreo e cristiano. Tali cristiani giudaizzanti (o questi giudei cristianizzanti) sono ai suoi occhi superiori ai giudei e ai cristiani convertiti dal paganesimo; sono essi ad essere “ricchi di fronte a Dio”.
Un bilancio sui cristianesimi giudaizzantiIl romanzo pseudo-clementino è un interessantissimo esempio dei cristianesimi giudaizzanti che si richiamavano a Gesù senza per questo rinnegare i precetti del giudaismo. Tali forme di cristianesimo potevano trovare la loro origine nella prima comunità di Gerusalemme, organizzata attorno a Giacomo e Pietro.
Giacomo, Pietro e PaoloLa figura di Giacomo, fratello di Gesù, è molto enigmatica. I dati biblici che lo riguardano pongono numerosi problemi di interpretazione, sui quali non è il caso di soffermarsi. Le informazioni fornite dai Padri della Chiesa permettono di arricchire il quadro: Giacomo sarebbe stato il primo dirigente della comunità di Gerusalemme, gli altri apostoli gli avrebbero concesso il primato perché era “giusto”: barbuto e volontariamente sporco, vestito di lino, sarebbe morto lapidato dai giudei (Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, II.1-3-4 ; II.23, 4-20). A questo Giacomo è stata attribuita la lettera che figura sotto il suo nome nel Nuovo Testamento, come anche numerosi apocrifi, composti nel corso del II secolo. Il seggio sul quale si sedeva per insegnare sarebbe stato conservato fino al IV secolo (Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica VII.19 ; VII.32.24). Tutto questo testimonia della grande stima di cui godeva nei primi secoli del cristianesimo.
Pio ebreo convinto dal messaggio di Gesù, Giacomo è divenuto, per i giudeocristiani, una figura con cui identificarsi. Il suo martirio ha probabilmente giocato un ruolo importante in questa identificazione identitaria: alla luce delle diverse fonti consacrate a questo argomento, si può ragionevolmente pensare che Giacomo sia stato effettivamente messo a morte da dei giudei, anche se le circostanze esatte di questa morte restano avvolte dall’incertezza. Siccome Giacomo è stato probabilmente assassinato da dei giudei ostili al cristianesimo, è divenuto un simbolo importante per i cristiani giudaizzanti: la sua sola morte simboleggia il confronto tra i giudei che rispettavano le Legge ma rifiutavano Gesù (i farisei) e i giudei convertiti al cristianesimo ma che rispettavano la Legge.
Il romanzo pseudo-clementino riconosce di fatto una grande importanza a Giacomo, qualificato come “signore e vescovo dei vescovi” e considerato come il garante della purezza della dottrina. Le Omelie fanno dire a Pietro: “Ricordatevi di non accettare nessuno come apostolo, dottore e profeta, che non abbia prima confrontato la sua predicazione a quella di Giacomo detto il fratello del mio Signore…” (Omelie, XI.35.4).
I giudeocristiani stimano anche Pietro. Figura eminente, “stabilito come fondamento della Chiesa”, Pietro è incaricato, nel romanzo pseudo-clementino, della conversione dei pagani (conformemente ad Atti 15,7), soprattutto in Occidente – un ruolo tradizionalmente affidato a Paolo. È lui che, nel corso del romanzo pseudo-clementino, inizia Clemente alla fede cristiana. L’importanza accordata a Pietro in questo testo non dovrebbe sorprendere, poiché Pietro è stato fatto segno all’ostilità dei giudei non convertiti – gli Atti degli Apostoli riportano che è stato imprigionato a più riprese, di cui una con Giacomo (Atti 12,1-17). Come lui, Pietro non rinnegava le sue origini giudaiche; al contrario, sembra essere stato molto attaccato al Tempio di Gerusalemme e avere continuato a rispettare le regole di purità alimentare, cosa che gli varrà dei rimproveri da parte di Paolo.
A differenza di Giacomo e Pietro, l’apostolo Paolo è poco stimato nel giudeocristianesimo. Per molti cristiani giudaizzanti Paolo è in effetti responsabile della rottura tra giudei e cristiani. In un passaggio del romanzo pseudo-clementino che potrebbe risalire al II secolo, Paolo viene così presentato come l’antieroe per eccellenza (Riconoscimenti, I. 68-70.6): è lui che ha impedito ai giudei di convertirsi al cristianesimo; mentre erano sul punto di farlo, Paolo (presentato con il suo vecchio nome, Saul) ha fatto irruzione nel Tempio e si è messo a massacrare tutti, per poco non uccidendo anche Giacomo. Senza Paolo non ci sarebbero più giudei non cristiani! L’antipaolinismo di questo testo, come di altri documenti giudeocristiani, si spiega con l’opposizione di Paolo alla Legge, che i cristiani giudaizzanti continuavano a rispettare, almeno in parte.
Chi ha messo Gesù a morte?Sarebbe certo desiderabile sapere come i cristiani giudaizzanti comprendevano la morte di Gesù: era stato messo a morte dai giudei? E in questo caso, perché? Sfortunatamente abbiamo solo poche informazioni sulle rappresentazioni della morte di Gesù che hanno circolato tra i cristiani giudaizzanti. Il romanzo pseudo-clementino, per esempio, tace su questo punto.
La sola testimonianza utilizzabile sull’argomento è il Vangelo di Pietro, un vangelo del II secolo di cui resta un lungo frammento. In questo racconto, punteggiato di versetti dell’Antico Testamento e di motivi di origine giudaica, l’accento è posto sulla signoria di Gesù e non sulle sue sofferenze: la passione è una vittoria, che porta all’esaltazione di Gesù. La celebre scena della resurrezione lo afferma esplicitamente: essa mette in scena degli angeli di dimensioni colossali, un motivo ripreso dal giudaismo; Gesù è in mezzo a una sorta di scorta d’onore, che lo riporta in cielo, luogo da cui è originato (§56).
Tale rappresentazione è tipica dei cristiani giudaizzanti? Non si può dirlo. Ma è sorprendente che, nel Vangelo di Pietro, Pilato sia interamente sollevato da ogni responsabilità nell’arresto di Gesù. La sorte di Gesù è dibattuta e discussa tra i giudei, primo fra tutti Erode. L’autore del Vangelo di Pietro attribuisce a dei giudei la responsabilità della morte di Gesù. Il che dimostra che si può essere cristiani giudaizzanti e antiebraici. Questa constatazione attesta la complessità delle relazioni tra cristianesimo e giudaismo nell’Antichità.
Il destino di queste comunitàI cristiani giudaizzanti sono rimasti marginali, poiché erano mal tollerati sia dai giudei che dai cristiani, poiché non erano né autenticamente giudei per i primi, né autenticamente cristiani per i secondi. Come disse Girolamo nel 404: “Vogliono essere a un tempo giudei e cristiani, ma non sono né giudei né cristiani.” (Lettera 112,13) Criticati dai giudei perché riconoscevano Gesù, vilipesi dai cristiani perché rimanevano fedeli alla Legge giudaica, i cristiani giudaizzanti sono apparentemente scomparsi nel corso del V secolo, lasciando il posto a un cristianesimo di altro tipo, quello al quale si riallaccia la Dichiarazione di Giuseppe d’Arimatea: un cristianesimo che nega ogni valore al giudaismo, ma che adotta le Scritture giudaiche, che fa dell’Antico Testamento un Patto realizzato da Gesù, e in cui il compimento dei precetti del giudaismo è considerato abolito.
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