Di Bernard Reymond
Traduzione di Giacomo Tessaro
Possono (o devono) le predicazioni costituire l’oggetto di concorsi con tanto di premi? Sembra una domanda bizzarra, che però è lecito porre dopo che la Federazione delle Chiese Protestanti della Svizzera ha indetto nel 2014 un “Premio svizzero di predicazione”. Prima difficoltà, di ordine linguistico: in Svizzera ci sono quattro lingue nazionali (tedesco, francese, italiano e romancio). Difficoltà supplementare: nella parte alemannica del paese i pastori predicano sempre più spesso in dialetto, che gli svizzeri romandi spesso non comprendono. Ci sono volute quindi due giurie: francese-italiano e tedesco-romancio. Nell’impossibilità di confrontare ciò che, a rigore, non si può confrontare, sono stati conferiti due premi. Seconda difficoltà: su cosa hanno fondato il loro giudizio le due giurie? Su predicazioni effettivamente ascoltate? Ma in quali circostanze, e in quale luogo? Su predicazioni videoregistrate? Ma secondo quale protocollo che assicuri la neutralità e l’uniformità del video e del sonoro? Su testi scritti? Ma pronunciati in quali circostanze? Gli organizzatori del concorso si sono semplificati il compito: le giurie si sono pronunciate su testi scritti, riprodotti in maniera identica, senza menzione dell’autore e del luogo. Ma queste sono ancora delle predicazioni o solamente dei fantasmi di predicazioni? Terza difficoltà: il concorso deve giudicare tutte le predicazioni pronunciate in Svizzera in un determinato giorno oppure solo quelle che i loro autori hanno sottoposto di loro iniziativa al concorso? Eccellenti predicazioni non sono quindi state prese in considerazione, vuoi perché i loro autori hanno ritenuto che un sermone non possa essere oggetto di un concorso, vuoi perché alcuni improvvisano la forma definitiva del loro discorso e non hanno alcuna intenzione di stenderlo su carta.
Al loro posto (ma io non sono più in attività) avrei avuto la stessa reazione. La predicazione, a mio avviso, è un atto di culto, l’atto più necessario e più significativo, il che non le impedisce di essere strettamente legata agli altri elementi della liturgia, che formano un unico corpo. Ho sempre visto la predicazione come un atto più gravido di senso e più intimidente, per il predicatore o la predicatrice, di ogni altro discorso pubblico (conferenze, corsi, dibattiti etc.). Mettere in competizione una delle mie prestazioni in questo ambito sarebbe stato per me inconcepibile: avrei provato un penoso senso di incongruità. Non ci si rivolge a un uditorio o alla giuria di un concorso nello stesso stato d’animo e con lo stesso tono con cui ci si rivolge a un’assemblea di fedeli riuniti per il culto. E poi, cosa significa un sermone stampato senza indicazione di data, di luogo, di circostanza, d’autore, senza menzionare le reazioni dell’assemblea, le preghiere, i cantici, la musica che lo hanno accompagnato? Significa domandare a una giuria su pronunciarsi su qualcosa che non è già più una predicazione ma un vestigio scritto, per non dire morto, di una performance a cui bisogna assistere per potersi pronunciare con cognizione di causa. Compiango le giurie che hanno dovuto piegarsi a tale esercizio e mi domando quale idea si fanno del culto i professori di teologia pratica (tra i quali, a quanto ne so, non compare nessun francofono) che hanno, a quanto pare, dato il loro assenso a un simile progetto. Sui circa 1.600 pastori riformati che conta la Svizzera, 245 hanno partecipato. Quindici delle predicazioni sono state pubblicate: “Prédications, un best of protestant” (Ginevra, Labor et Fides, 2014). La più interessante, sorprendente per un lettore francese, è quella a cui è stato conferito il primo premio, che Isabelle Ott-Baechler ha pronunciato all’insediamento delle autorità cantonali alla Collégiale di Neuchâtel il 21 maggio 2001. Ecco l’ultima frase: “Non erigete nulla come assoluto se non Dio, che ha voluto questo mondo che ama!”.
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