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Rousseau, enfant terrible di Calvino

Il suo incontro con Madame de Warens aprirà una parentesi cattolica che durerà dodici anni. Ciò nonostante, Jean-Jacques resterà per tutta la vita cittadino di Ginevra, politicamente e spiritualmente.

A Parigi frequenta i salotti mondani e i circoli intellettuali. Entra in urto con l’ateismo militante degli Illuministi, al quale non aderisce. Non si conoscono periodi di ateismo dichiarato in Rousseau. Forse è questo contatto con l’ateismo che provoca in lui un ritorno al protestantesimo: “La frequentazione degli increduli ha rinvigorito la mia fede”… Gli capita di assistere al culto riformato nella cappella dell’ambasciata d’Olanda.

Madame d’Épinay racconta nelle sue Memorie che nel corso di un pranzo in città, Rousseau minaccia di abbandonare su due piedi la tavola dove secondo lui si sta dicendo “male del suo Dio, che è presente”. E si lascia sfuggire davanti ai convitati che immaginiamo divisi tra l’ironia e la freddezza: “Io invece credo in Dio.”

Viene reintegrato, su sua domanda, nella Chiesa riformata di Ginevra il primo agosto 1754. Stringe legami d’amicizia con pastori e teologi, Vernet, Vernes, Moultou e il filosofo Abauzit.

Il 1762 vede la condanna dell’Emilio. Rousseau espone il suo credo nel quarto libro, sotto il titolo “La professione di fede del vicario savoiardo”. Il libro conosce un grande successo ma viene attaccato da ogni parte. L’arcivescovo di Parigi, Cristophe de Beaumont, ne proibisce la lettura ai suoi fedeli, i pastori di Ginevra lo condannano, viene simbolicamente bruciato nelle due città. Per coronare il tutto, Rousseau si attira i motteggi degli Enciclopedisti radicali.

Rifugiatosi a Môtier-Travers che si trovava allora in territorio prussiano, Rousseau è ammesso alla santa cena dal pastore del luogo. Pubblica una ammirabile “Lettera a Cristophe de Beaumont” in risposta alla condanna dell’Emilio. Seguono dal 1764 le importanti “Lettere scritte dalla montagna”, di cui si è detto che sono le Provinciali del liberalismo religioso.

Aggiungiamo che Rousseau è un lettore assiduo della Bibbia. Afferma di leggerla tutti i giorni e di averla letta molte volte da cima a fondo. Alla fine della sua vita dichiarerà “C’è un solo libro che posso leggere, è la Bibbia. Non mi lascia più: la tengo sotto al capezzale del letto.”
Tensione tra ragione e fedeC’è in Rousseau una tensione feconda tra ragione e fede. Essa viene rappresentata nel dialogo della “Professione di fede” tra “l’ispirato e il ragionatore”. Troviamo che, in questo passaggio, egli opta per il razionalismo. Ma qualche pagina più avanti, la conclusione mette in guardia contro i pericoli della filosofia. Rousseau è al tempo stesso l’ispirato e il ragionatore. È diviso tra l’argomentazione razionale delle “Lettere scritte dalla montagna” e l’anti-intellettualismo dell’”Emilio”.

Rousseau pone la sua fiducia nella ragione fino a che non diventa puramente speculativa e si mette a girare a vuoto. Essa si trasforma allora in maestra di errori. Non di meno, non esita a ricorrervi in materia di fede. Ciò è evidente per quanto riguarda l’esame critico del soprannaturale nelle “Lettere scritte dalla montagna”.

Se quindi la ragione è un cattivo strumento nella ricerca di Dio, in compenso è un ottimo utensile di critica interna alla fede. Rousseau è il contrario di un illuminato. Riflette intensamente e al tempo stesso crede alla sua maniera. Vale a dire che fa spazio al dubbio, che però non ha nulla a che vedere con quello di Descartes o degli atei. Egli non pratica un dubbio teorico ma un dubbio emancipatore , “uno scetticismo niente affatto doloroso”, che libera la fede dalle forme superstiziose e autoritarie della credenza.

Rousseau fa certamente spazio a quella che si può chiamare la vena mistica, ma non le accorda troppo spazio. Se giudica irresponsabile rendere fragile la fede dei semplici suscitando difficoltà intellettuali per essi insolubili, ritiene che la fede debba restare nei limiti di una “coscienza retta e nella luce di un sano intendimento”. Questa idea della ragione come istanza regolatrice ma non normativa e interna alla fede stessa apre evidentemente la via alla decostruzione dell’assolutismo e del fanatismo. Rousseau si pone qui nella linea dei pensatori protestanti della tolleranza che, a partire da Castellion, cercano questo inafferrabile punto di equilibrio.
La coscienzaTutti hanno letto il celebre inno alla coscienza che figura nella “Professione di fede”: “Coscienza! Coscienza! Istinto divino, immortale e celeste voce; guida sicura di un essere ignorante e limitato, ma intelligente e libero, giudice infallibile del bene e del male, che rende l’uomo simile a Dio!”…

La coscienza è sempre ciò che definisce l’uomo distinguendolo dall’animale. Pertanto la coscienza è universale. Essa fa sì che l’umano sia identico in tutti gli uomini. La coscienza è rivelatrice di una universalità morale. Permette di giudicare le nostre azioni e quelle altrui come buone o cattive. Precede la virtù, che si definisce come la forza che permette di compiere concretamente quello che la coscienza mostra essere il bene. Può essere anche negativa, se viene a mancare la forza di compiere quel bene. In questa coscienza negativa risiede qualcosa del malessere intimo di Rousseau, che dà volentieri sfogo al rimpianto o sprofonda nella solitudine. In ogni caso, la coscienza rimane il punto d’appoggio morale dell’uomo.

La coscienza è anche l’organo attraverso il quale Dio ci afferra. In Rousseau, morale e religione sono molto prossime l’una all’altra, e dopo tutto questo non sorprende. Rousseau è un fervente lettore della Bibbia. Ora, cos’è la Bibbia, se non l’affermazione di un monoteismo etico?

Attraverso la coscienza morale egli avverte una presenza, quella di una volontà buona che non è la sua, che lo sovrasta e gli indica il cammino da seguire. Non è allora lontano dal Dio che parla al cuore di Pascal. Ma se ne allontana non appena, attraverso la contemplazione della natura, la coscienza sfocia in una sorta di panteismo.

La coscienza è ciò di cui l’uomo si deve prendere particolarmente cura. Deve mantenerla chiara, senza finzioni, senza ipocrisie, senza compromessi. Ad ogni momento la sua voce corre il rischio di essere soffocata dai sortilegi della civiltà. Bisogna dunque scegliere accuratamente la maniera di vivere. Per vivere moralmente, bisogna vivere religiosamente.

Con la coscienza l’uomo accede infine alla libertà. Nel “Discorso sull’ineguaglianza” Rousseau scrive: “Non è tanto l’intelletto che fa la specificità dell’uomo tra gli animali, quanto la sua qualità di libero agente. La natura comanda a ogni animale e la bestia obbedisce. L’uomo prova la stessa impressione ma si riconosce libero di acquiescere o di resistere; ed è soprattutto nella coscienza di questa libertà che si mostra la spiritualità dell’anima.”
Un ottimista moraleSi sa fino a che punto Rousseau ha conosciuto una vita personale difficile. Incompreso, rifiutato, perseguitato, rinnegato, sempre in fuga, non ha beneficiato che di rare oasi di felicità. Ha cercato ansiosamente il suo posto senza trovarlo mai. È costantemente alle prese con la sofferenza che mina l’essere. Questo non gli impedisce di accogliere molto positivamente la vita. Niente vale quanto la vita che è un “dolce godimento permanente”, una volta scartata la sofferenza.

Così si interessa poco al classico problema della teodicea, che si sforza di spiegare il male in generale in relazione con l’idea di Dio. Troppo vago, troppo astratto. Non c’è un male inerente all’universo, il quale si comporta come deve secondo le leggi della natura. Vi si svolge un ordine immutabile in cui si alternano invecchiamento e rinnovamento, vita e morte, spiegando, per chi sa vedere, una sorta di saggezza cosmica.

Nel 1756 un terremoto distrugge la città di Lisbona, facendo migliaia di vittime. Questa catastrofe esercita una forte impressione su Voltaire che scrive il famoso “Poema sul disastro di Lisbona”. In quei versi Voltaire chiama in causa l’idea di provvidenza, si interroga sulla crudeltà di Dio e conclude: “Bisogna riconoscerlo, il male è sulla terra / Il suo principio segreto ci è del tutto sconosciuto.”

Il poema provoca una virulenta risposta di Rousseau, che trova sia troppo facile attribuire alla provvidenza dei mali che gli uomini si sono attirati con la loro imprevidenza. “Convenite, per esempio, che la natura non aveva affatto radunato ventimila case alte sei o sette piani e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati sparsi più equamente e meglio alloggiati, il danno sarebbe stato molto minore, forse nullo…” Invocare la giustizia divina là dove essa non ha nulla a che fare, è ingarbugliare le cose.

Quello che lo esaspera ancora di più sono i teologi e i predicatori che pretendono di interpretare gli avvenimenti puramente naturali come dei castighi inflitti da un Dio vendicatore. Vi vede solo una strategia autoritaria per dominare sulle anime.

No, se vi è un male, non è imputabile che all’uomo. “Uomo, non cercare più l’autore del male; questo autore sei tu stesso. Non esiste nessun altro male che quello che tu fai e soffri, e l’uno e l’altro vengono da te.” (Professione di fede)

È che l’uomo è nato libero e che la sua libertà è strettamente legata alla coscienza morale. Abusando della sua libertà destinata a scegliere il bene, l’uomo introduce il disordine nell’universo. Il motore di questo disordine è l’egoismo. Invece di regolarsi sul “centro comune che è Dio” (Professione di fede) la libertà si regola in rapporto all’individuo. In questa deviazione si rintraccia l’origine di tutte le nostre infelicità.

Dobbiamo dire che Rousseau discerne nell’uomo qualche cosa che assomiglia al peccato originale della dogmatica cristiana? Probabilmente, a condizione di tenere a mente la distinzione precisata a Charles de Beaumont: “Voi non sapete vedere che l’uomo nelle mani del diavolo e io vedo come vi è caduto.”

Rousseau ritiene che a un dato momento della storia dell’umanità ci sia stata la perdita dell’innocenza con la perdita dello stato di natura. La prima frase dell’Emilio è eloquente: “Tutto è bene ciò che esce dalle mani dell’Autore delle cose; tutto degenera tra le mani dell’uomo.” La libertà umana si è messa al servizio degli egoismi, la ragione si è mutata in maestra di errori, i bisogni artificiali della civiltà hanno coperto la voce della coscienza. Rousseau descrive già nell’essere umano ciò che altri chiameranno più tardi alienazione.
La naturaCosì, la via reale della rigenerazione dell’uomo è il ritorno alla natura. La natura è la creazione di Dio nel suo stato primitivo, non ancora danneggiato dall’intervento dell’uomo. In quanto parte integrante della natura, l’uomo è stato creato buono, ma il cattivo uso della sua libertà e della sua ragione ha compromesso tutto. Gli resta la nostalgia di un Eden perduto da cui è uscito per sua colpa.

Rousseau si impadronisce della finzione del buon selvaggio, resa popolare nel XVIII secolo dai racconti dei navigatori e degli esploratori. Il buon selvaggio è l’uomo autentico, non alienato dalla civiltà, che porta con sé la speranza di ritrovare, in parte, qualcosa della natura edenica perduta. Ma ritornare alla natura non significa solamente, per l’uomo, ritornare a se stesso, significa anche ritornare a Dio, ritornare alla parte divina dell’uomo.

Perché la natura è il libro di Dio. È firmata da Dio come il quadro di un grande maestro. Questo quadro è visibile là dove la civiltà non l’ha ancora degradato. È lì, possibilmente, che l’uomo deve rendere a Dio un culto semplice e autentico.
I miracoli non servono a nullaQuesta concezione di una natura specchio di Dio non implica affatto una sovranatura. Rousseau resta ancorato al movimento illuminista, è allergico al fascino della magia e lotta con passione contro la superstizione e l’oscurantismo. La natura è il campo privilegiato delle scienze e delle tecniche, che egli percepisce essere ancora ai primi vagiti.

Ecco perché i miracoli descritti nella Bibbia non sono i segni di un intervento divino ma le testimonianza di una mentalità prescientifica. “Se i sacerdoti di Baal avessero avuto il signor Rouelle (chimico e artificiere, membro dell’Accademia Reale delle Scienze) in mezzo a loro, le loro pire avrebbero preso fuoco da sé, e Elia si sarebbe fatto abbindolare” (seconda Lettera dalla montagna). Citando le opere del medico Bruhier d’Ablaincourt, suggerisce che le diverse resurrezioni menzionate dagli scrittori biblici possano essere dei casi di rianimazione non spiegati.

I miracoli non servono a nulla, non costituiscono prove della fede ma sono tutt’al più dei rifugi per la “crassa ignoranza”. Esegeta accorto, Rousseau cita la piccola apocalisse di Matteo (24-25) nella quale Cristo prevede che sorgeranno falsi Messia e falsi profeti per moltiplicare i miracoli e i prodigi. Per ammissione del Maestro, c’è poca strada dal miracolo al miraggio…

È dunque a un cristianesimo purgato delle sue credenze magiche, niente affatto necessarie secondo lui, che aspira Rousseau. “Levate i miracoli dal Vangelo e tutta la terra sarà ai piedi di Gesù Cristo” (seconda Lettera dalla montagna).
La critica della rivelazioneLa “Professione di fede” si affida ad una critica in piena regola del postulato della rivelazione, sul quale si basano il giudaismo, il cristianesimo e l’islam. Queste tre correnti del monoteismo affermano di fondarsi su una rivelazione sovrannaturale e storicamente accertabile. Invocano una iniziativa unilaterale di Dio che mette a parte l’umanità della sua verità e della sua volontà.

Rousseau non fa alcuna fatica a dimostrare la debolezza di questo postulato, che è solo un modo mascherato di riservarsi il primo posto nel concerto delle religioni: “Consideravo questa diversità di sette che regnano sulla terra e si accusano vicendevolmente di menzogna e di errore; domandavo: Qual è quella giusta? Ognuno mi rispondeva: È la mia.”

Quello che lo disturba nella rivelazione come la presentano i teologi, è ancora il ricorso al sovrannaturale. Dio ha parlato e ha autenticato questa parola con dei segni, dicono i teologi in coro. Ma se questa voce venuta da qualche altrove e i segni che si presume la accompagnino non fossero che una mistificazione umana? La rivelazione riveste di autorità ultima colui che vi fa appello. È molto comodo. Essa assegna alla sua verità un coefficiente di assolutezza e di infallibilità. Come per magia, il dogma diventa intoccabile, esclusivo e autoritario. La messa in discussione e il ridimensionamento sono proibiti. Di colpo le altre forme di credenza o di fede si vedono trasformate in errori da combattere.

E poi la rivelazione, o piuttosto le rivelazioni, separano invece di riunire. Con una certa verve Rousseau ha puntato il dito verso i problemi insolubili che questo porta con sé. “Alla Sorbona, è chiaro come il giorno che le predicazioni del Messia si riferiscono a Gesù Cristo. Presso i rabbini di Amsterdam è altrettanto chiaro che le due cose non hanno il minimo rapporto […] A Costantinopoli i Turchi dicono le loro ragioni ma noi non osiamo dire le nostre: lì tocca a noi strisciare.”

Impossibile non essere stupefatti dalla modernità di queste pagine, che non sono invecchiate. La problematica delle rivelazioni che si combattono è al cuore del nostro presente, all’incrocio della coabitazione delle culture e della geopolitica contemporanea…
Il Gesù di Rousseau Nella fede di Rousseau, Gesù è molto più che un eminente saggio dell’Antichità e molto meno dell’unico Mediatore, vero uomo e vero Dio, della teologia nicena. Gesù è l’uomo divino che non si è smentito una sola volta. “Se la vita e la morte di Socrate sono di un saggio, la vita e la morte di Gesù sono di un Dio”, la formula è stata talvolta richiamata per suggerire che Rousseau sarebbe evoluto, alla fine della vita, verso un cristianesimo più ortodosso. Questo non significa nulla. La croce non riveste per lui alcun carattere sacrificale o espiatorio; è semplicemente l’attestazione dell’eroismo morale di Gesù Cristo. Gesù incarna l’ideale morale e la santità, ed è in questo senso che si può dire che egli è l’espressione più compiuta del divino nell’uomo.

Senza dubbio Rousseau non si interessa al dogma della trinità, è quindi un sociniano (antitrinitario). Tale posizione all’epoca non è rara presso i pastori di Ginevra, anche se non vogliono ammetterlo. Rousseau lo sa bene e rimprovera loro il timore e la preoccupazione di preservare i loro vantaggi materiali. D’Alembert, nell’articolo “Ginevra” dell’Enciclopedia, aveva presentato l’unitarianesimo di quei pastori come una patente di modernità. Invece di compiacersene, questi ultimi si sono premurati di smentire. Proprio come si sono precipitati a condannare l’Emilio. Dietro queste manovre Rousseau non vede altro che una mancanza di coraggio dannosa per la causa dell’Evangelo.

Non ammette nemmeno la resurrezione corporale di Cristo, anche se crede a una forma di immortalità. Chiama a soccorso il discorso di Paolo agli Ateniesi in Atti 17. Queste storie di resurrezione non meritano che la risata di commiserazione delle menti ragionevoli…

La vera grandezza di Gesù Cristo fu alla fine di aver instaurato il culto in spirito e verità: “La religione dell’uomo… senza templi e senza altari, senza riti, limitata al culto puramente interiore del Dio supremo e ai doveri eterni della morale, è la pura e semplice religione dell’Evangelo, il vero teismo, ciò che si può chiamare il diritto divino naturale… Attraverso questa religione santa, sublime, autentica, gli uomini, figli del medesimo Dio, si riconoscono tutti quali fratelli e la società che li unisce non si dissolve nemmeno con la morte.” (Contratto sociale)
Confessore della fede protestante“Io sono il confessore della fede protestante a Parigi ed è per questo che lo sono ancora a Ginevra.” Così si presenta fieramente nella seconda Lettera dalla montagna. Non è esagerato dire che Jean-Jacques è un enfant terrible di Calvino.

Distingue con cura i Riformatori dalla Riforma.

La Riforma consiste, ci dice Rousseau, in due princìpi fondamentali, la Bibbia come sola regola di fede e la sua libera interpretazione da parte di ciascun credente.

Se Calvino ha posto in effetti il Sola Scriptura come norma unica della fede cristiana, non ha mai raccomandato la libera interpretazione. Rousseau non lo ignora: “Quale uomo fu mai più reciso, più imperioso, più decisionista, più divinamente infallibile, a suo piacimento, di Calvino, per il quale la minima opposizione che si osasse fargli era sempre opera di Satana, un crimine degno del rogo? Non è costato la vita al solo Serveto aver osato pensare diversamente da lui.” (seconda Lettera della montagna)

Su cosa fondare l’autorità teologica? A questa domanda Calvino ha risposto con la teoria della testimonianza interiore dello Spirito Santo. Dio assiste e guida il credente nella sua lettura delle Scritture per mezzo dello Spirito Santo. Si suppone che questa illuminazione interiore gli dia una infallibilità sufficiente per avere la meglio su un intero Concilio.

Rousseau sostituisce la testimonianza interiore dello Spirito Santo con la libera interpretazione delle Scritture, un’idea che viene direttamente da Jean-Alphonse Turrettini. Questo è del resto un luogo comune della predicazione della Chiesa ginevrina del XVIII secolo. Il senso della Bibbia è sufficientemente chiaro sui punti essenziali, ognuno è competente abbastanza per esserne giudice, non in virtù di una operazione sovrannaturale ma in virtù della sola ragione. Contrariamente a quello che pensa Calvino, la ragione umana non è viziata al punto di essere resa inutilizzabile. Il principio dell’evangelismo è la libertà e non la sottomissione ad una autorità esteriore. Nulla è più lontano da Rousseau dell’idea della fede come sottomissione o abbandono, da parte dell’uomo, delle facoltà a lui proprie.

Tuttavia “non ammettere altro interprete della Bibbia che se stessi” non è un rischio di disperdersi all’infinito? Il corpo collettivo della Chiesa ha la minima possibilità di sussistere se si riassume in una somma di opinioni disparate? La risposta a questa obiezione è la pratica della tolleranza reciproca. “Essi (i protestanti) dovrebbero tollerare tutte le interpretazioni salvo una, ovvero quella che toglie la libertà di interpretazione.”

Attraverso la tolleranza reciproca è possibile fare corpo, quindi edificare una Chiesa. Ragione per la quale non ci può essere una confessione di fede vincolante, perché tale vincolo manderebbe in frantumi la tolleranza.

Si è certo dovuto costituire una Chiesa sufficientemente forte e coerente per resistere a Roma. Ma il vero legame comunitario di questa Chiesa restava la diversità, a dispetto degli sforzi di Calvino. Rousseau azzarda un paragone politico: “Erano tanti piccoli Stati in lega contro una grande potenza e la cui confederazione generale non toglieva nulla all’indipendenza di ciascuno.” La tolleranza è così una virtù personale, perché mi permette di salvaguardare la mia originalità, e politica, poiché mi permette di vivere in armonia con gli altri. La tolleranza si collega con la teologia del contratto, la quale viene da Calvino, che influenza molto Rousseau, soprattutto nella sua riflessione politica. Se una Chiesa è il risultato di un contratto, perché questo contratto non può essere, non dispiaccia a Calvino, quello della mutua tolleranza?

Al contrario dei non conformisti, Rousseau non è ostile alla prospettiva di una Chiesa di Stato; senza dubbio riflesso del suo essere ginevrino, non dimentica che “la repubblica sarebbe stata annientata se il papismo avesse ripreso il sopravvento” (seconda Lettera dalla montagna). Il sovrano può essere il protettore della Chiesa, può dare forma a un catechismo, ma senza mai pesare sulle coscienze.

La severissima inquisizione e la dura ortodossia della riforma ginevrina si spiegano con il fatto che “Calvino senza dubbio era un grand’uomo, ma alla fine era un uomo e ciò che è peggio, un teologo”… Se è verissimo che “da perseguitati, i Riformatori divennero ben presto persecutori” questa è solo la dimostrazione dell’incoerenza degli uomini.

Come affermava lo storico della letteratura Gustave Lanson (1857-1934), Jean-Jacques Rousseau fu davvero un puro protestante liberale.

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