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Chiesa e politica

La prima riguarderà l’Evangelo, il suo messaggio o il suo insegnamento. In cosa consiste esattamente? Riguarda o no la società e la politica? In seguito mi chiederò se ci sia una specificità politica del cristiano, se esso si distingue, e se sì in cosa, dagli altri cittadini. Infine mi interrogherò sulle Chiese: devono o no prendere parte ai dibattiti pubblici, esprimersi sugli affari della polis?L’essenza della fede cristianaDi cosa parla l’Evangelo? A questa domanda vengono date essenzialmente due risposte. Nel protestantesimo, la prima, di tipo pietista, appartiene soprattutto alla tradizione luterana, anche se non tutti i luterani la condividono e la si trova anche altrove. La seconda è soprattutto riformata, anche se i riformati non ne hanno il monopolio e si ritrovano tra loro altre opinioni.Sola Gratia (Per Grazia soltanto)Per la prima risposta, l’Evangelo si interessa principalmente se non unicamente alla relazione di Dio con ciascun essere umano. Il problema della salvezza personale ha tormentato Lutero; ha determinato la sua azione e la sua riflessione. La risolse con una insistenza radicale, quasi esclusiva, sulla grazia e sulla fede. La grazia significa che Dio mi salva malgrado la mia insufficienza e la mia indegnità, in forza di ciò che egli è e non in forza delle mie qualità o delle mie azioni. Mi dona la salvezza senza chiedermi nulla in cambio. La fede vuol dire che io ricevo questa salvezza come un dono immeritato. Faccio affidamento interamente e solamente in Dio; rinuncio ad avere un qualche valore di fronte a lui attraverso le mie opere. Questo legame particolare che si annoda tra Dio e il credente, ecco qua, secondo questa prima alternativa, il cuore e la sostanza del cristianesimo. Non riguarda veramente la società, la sua organizzazione il suo funzionamento. In questa linea si riassume l’Evangelo in due parole: Dio e l’anima.

Questa risposta favorisce una spiritualità dell’interiorità abbastanza indifferente ai problemi della polis. Lo spirituale e il temporale formano due universi distinti, separati, senza grande rapporto l’uno con l’altro. Questo non vuol dire che il cristiano si disinteressi del mondo, ma che il suo impegno nella società è guidato da princìpi laici, comuni ai credenti e ai non credenti, che non riguardano l’Evangelo ma la legge, la ragione, la tecnica. Quando un magistrato cristiano emette le sue sentenze, quando un capo di Stato cristiano prende le sue decisioni, quando un industriale cristiano dirige la sua impresa, quando un cittadino cristiano vota, lo fa a partire da criteri che non scaturiscono dall’Evangelo. Non si distinguono, qui, dai non cristiani onesti e virtuosi. “Ciò che è cristiano, scrive Lutero, non si trova nel comportamento esteriore ma nello stato interiore”. Durante gli anni ’30 in Germania questa dissociazione tra la spiritualità e la pratica sociale ha spinto dei cristiani (non tutti, fortunatamente) ad adattarsi al nazismo e a rifiutare di resistervi in nome dell’Evangelo. Per loro la spiritualità non aveva nulla a che fare con la politica.
Il RegnoLa seconda risposta dice che al cuore del messaggio evangelico sta la proclamazione del Regno di Dio che deve prevalere sull’annuncio della salvezza gratuita. L’Evangelo proclama che la questione della salvezza è liquidata, risolta, superata. Se i luterani ne fanno il centro, l’essenza della fede, i riformati hanno la tendenza, come anche il metodista John Wesley, a considerarla come la porta d’ingresso, il “vestibolo” o l’anticamera della vita cristiana. La salvezza è il punto di partenza dal quale si avanza, il fondamento sul quale si costruisce. Dio l’ha operata in Gesù Cristo. Non c’è più di che inquietarsi, non bisogna più occuparsene. Gesù ci ha salvati, la cosa è fatta. Ora si tratta di far sì che diventi il signore, colui che dirige la nostra vita e che regna nel mondo. In questa ottica, all’inizio del ventesimo secolo, alcuni movimenti di giovani cristiani aveva assunto come parola d’ordine: “Fare di Cristo il re”. A una pietà troppo intima, a una religione che assegna la priorità all’interiorità e alla liturgia, a una fede che si relega nel privato, il fondatore delle Chiese Riformate, lo zurighese Zwingli oppone una formula pittoresca: “Rendere culto a Dio, dice, non vuol dire scoreggiare tra quattro mura” – no, è andare per strada ad agire. La spiritualità ha una dimensione necessariamente pubblica e politica. L’Evangelo non si limita a “Dio e l’anima”, esso riguarda anche questo mondo in cui bisogna manifestare concretamente il regno di Dio o di Cristo.

Sono evidenti i pericoli di questa seconda risposta. Essa rischia di condurre ad un totalitarismo religioso. La città calvinista di Ginevra assomiglia sotto molti aspetti alle repubbliche islamiche contemporanee e ci si può domandare se l’imperialismo della destra americana non se ne sia in parte ispirata. Tuttavia questa deriva non è affatto automatica e da essa ci si può proteggere.
ConclusioneQueste due risposte (che spesso si è tentato di combinare) hanno delle conseguenze pratiche importanti. Quando si ritiene la salvezza gratuita l’essenza del cristianesimo, l’impegno politico della Chiesa appare subito aberrante; si ha la sensazione che essa abbandoni il terreno che le è proprio per lanciarsi in un campo non di sua competenza; si ritiene che predichi o rischi di predicare “un altro Evangelo” (“non un altro Evangelo” è stato lo slogan, quarant’anni fa, di movimenti cristiani ostili all’impegno delle Chiese nella cultura e nella società).

Quando si vede nella proclamazione del Regno l’essenza del cristianesimo, e nella salvezza una premessa o una porta d’ingresso, si ritiene che una Chiesa che non prende posizione politica mutili il suo messaggio; così, l’anabattista Hubmaier rimproverava a Lutero di predicare solo un Evangelo a metà, una verità a metà. Allo stesso modo, il pastore Élie Lauriol diceva: “Il cristianesimo sociale è l’Evangelo tout court, ma non troppo corto”.
Specificità politica del cristianoEsiste una specificità del cristiano in politica? Le sue convinzioni hanno un’influenza sulle sue scelte e azioni in questo campo? Il disaccordo segnalato nel paragrafo precedente si ritrova anche qui. Gli uni inclinano per una risposta negativa e insistono sulla banalità sociale e civica del cristiano; gli altri ritengono che, se non si può parlare di originalità dei cristiani, vi sono perlomeno delle caratteristiche generate dalla loro fede.
La banalità del cristianoLa prima corrente non nega che la fede crei una differenza tra gli esseri umani. Tuttavia questa differenza si trova nella loro relazione con Dio e non nelle pratiche professionali, sociali o politiche. Così, nel secondo secolo, nelle sua Apologie, Giustino Martire sottolinea che i cristiani non hanno niente di speciale né di straordinario. Seguono i costumi, obbediscono alle leggi, sono sottomessi alle autorità. I loro comportamenti, i loro modi di vivere e di pensare non li distinguono dai loro concittadini. Non hanno un’etica o dei valori particolari; vivono conformemente all’ideale morale e civico dell’Impero Romano. Esteriormente, niente, se non la loro grande onestà, li distingue da un cittadino ordinario dell’Impero Romano.

In questa prospettiva si è spesso e giustamente detto che non c’è una maniera cristiana di riparare una macchina, di operare un’ernia, di far funzionare un computer. La politica rappresenta certamente un campo meno puramente tecnico; tocca di più le relazioni interpersonali, quindi l’ambito esistenziale, e l’ideologia vi gioca un ruolo importante. Nondimeno, anche se la situazione è più complessa, il credente vi si impegna e vi agisce in funzione di analisi e valutazioni che dipendono dal ragionamento, dalle informazioni, dall’esperienza, dall’intuizione e che hanno poco o niente a che vedere con la fede o con la relazione con Dio.

Bisogna tuttavia distinguere. Si ammette comunque una differenza, già indicata da Giustino quando insiste sulla superiore onestà dei cristiani. Se il cristiano non ha degli ideali o degli obiettivi politici particolari, la sua fede invece implica una maniera particolare di perseguirli. Lo esprime un puritano americano del diciottesimo secolo, che scrive: “Dio ama gli avverbi”. Dio non si interessa al “sostantivo”, a ciò che si è: poco gli importa se siamo professori universitari o donne di servizio, ministri o lavoratori immigrati, padroni o operai, grandi proprietari terrieri o schiavi: per lui non ci sono differenze tra i ceti. Invece si interessa all’”avverbio”: come si vive la propria situazione, come si esercita la propria attività (bene o male, duramente o generosamente, gioiosamente o controvoglia, con coscienziosità o negligenza)? Se la si traspone in politica, la fede non conduce né a sinistra né a destra né al centro; fa invece la differenza nel modo in cui si fanno e si esercitano le proprie scelte (umanamente o brutalmente, nel rispetto o nel disprezzo degli altri, privilegiando il proprio interesse o con abnegazione).
L’originalità cristiana Altri, al contrario, ritengono che la fede orienti l’impegno politico del cristiano non solamente nel suo “come” o nella sua modalità, ma nel contenuto medesimo. È quello che si può dedurre, anche se non lo dicono esplicitamente, dalle analisi di Albert Schweitzer e di John Cobb.

1. Secondo Schweitzer, tre correnti attraversano l’insieme delle religioni e delle spiritualità umane, che determinano tre concezioni divergenti dell’azione del credente nella società.

La prima corrente diffida delle realtà terrestri. Esse appartengono al dominio della carne, della materia, sono diaboliche, sviano l’essere umano dall’essenziale, vale a dire la sua relazione con Dio; lo rendono schiavo dei suoi bisogni e dei suoi desideri, prigioniero delle sue ambizioni e delle sue preoccupazioni. I fedeli sono invitati a liberarsi il più possibile dalle loro occupazioni e preoccupazioni mondane, a concedere loro un’importanza e un’attenzione ridotte per consacrarsi alla spiritualità, a esercizi di pietà, ad attività ecclesiali. Secondo una formula classica, “entrare in religione” equivale a “uscire dal mondo”. Si domanda quindi al cristiano non un impegno, ma un disimpegno politico.

La seconda tendenza afferma la totale sovranità di Dio sull’universo. Egli determina tutto ciò che esiste e decide tutto ciò che succede nell’universo. Di qui, una valutazione positiva della realtà terrestre: lungi dal combattere e contraddire il disegno di Dio, questa tendenza lo riflette, lo rappresenta e lo incarna. Ogni potere, dice seguendo Paolo, viene da Dio. Di conseguenza, la fede invita ad accettare le gerarchie e le organizzazioni sociali; conduce ad essere in accordo e in armonia con l’ordine delle cose. Il credente, di conseguenza, sostiene le autorità in carica, difende l’ordine costituito; la sua sottomissione e il suo conformismo politico fanno di lui un eccellente cittadino dal punto di vista di chi governa.

Per Schweitzer, l’Evangelo rappresenta una terza via. Esso non annuncia un Dio estraneo o esterno alla realtà del mondo, che invita i suoi fedeli a disinteressarsi di questa realtà. Non predica neppure un Dio che fonda e legittima l’ordine costituito e che domanda ai suoi fedeli di accettarlo e servirlo. L’Evangelo proclama che Dio lavora per modificare gli uomini e il mondo e che vuole operare una trasformazione per farne delle nuove creature, una nuova creazione. Il Dio della Bibbia “rende nuove tutte le cose”. Suscita un dinamismo, un movimento che coinvolge la realtà; mette il credente al lavoro in vista di questo scopo. La fede non deve sottomettersi o consentire a ciò che esiste e viene; non deve nemmeno evadere in un “al di là” o in un “di dentro”. Essa partecipa all’azione rinnovatrice di Dio, si impegna al suo servizio in vista di un miglioramento del mondo.

2. Come tradurre in impegno politico questa comprensione dell’Evangelo come dinamismo che spinge alla trasformazione creativa del nostro mondo?

John Cobb, in un contesto evidentemente americano, dà due indicazioni. Primo, la predicazione del Regno, secondo lui, porta a rifiutare il conservatorismo politico che intende mantenere lo statu quo. Dio non vuole che le cose restino in ordine ma che si muovano. L’Evangelo proibisce di essere soddisfatti dello stato attuale (anche se è migliore del passato), aspira ad altro; arriva sempre a contestare e mettere a soqquadro l’esistente.

In secondo luogo, la fedeltà all’Evangelo scarta le opzioni rivoluzionarie che vogliono abbattere le strutture attuali per costruire un mondo diverso, cosa che, per Cobb, non è diversa dalla fuga religiosa nell’al di là e l’altrove, nel sogno e nell’utopia. Allo stesso modo, Dio rinuncia ad annientare la vita dopo il diluvio, allo stesso modo Dio vuole la conversione del peccatore e non la sua morte, allo stesso modo il Regno di cui parla l’Evangelo non fa perire gli uomini ma li apre a una nuova vita, allo stesso modo non si tratta, per il cristiano, di distruggere l’esistente, ma di trasformarlo.

Ne risulta, secondo Cobb, che la fede evangelica conduce ad agire in senso progressista o riformatore, restando il fatto che non tutte le evoluzioni e le novità sono buone (alcune ci vogliono in realtà portare indietro) e che bisogna discernere quelle che servono veramente la vita (per riprendere un’espressione di Schweitzer).

Per Schweitzer come per Cobb le scelte, gli atteggiamenti, gli orientamenti ai quali la loro fede li conduce non sono esclusivi dei cristiani. Si possono assumerli per ragioni profane o filosofiche, o per motivi religiosi niente affatto ispirati esplicitamente e coscientemente all’Evangelo. Così, nel 1789, il pastore Rabaut Saint Étienne, deputato di Nîmes agli Stati generali poi alla Costituente, riteneva che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo corrispondesse alle convinzioni religiose dei protestanti; vi vedeva una traduzione laica dell’Evangelo, senza evidentemente negare che avesse dei fondamenti razionali che le davano una portata universale. Allo stesso modo Schweitzer riteneva che il pensiero e la fede, la filosofia e la religione, quando vengono approfondite ambedue, conducano alle stesse posizioni etiche. Affermava che l’Evangelo e la ragione non si oppongono bensì convergono. In questa prospettiva non vi è contraddizione ma accordo tra l’insegnamento evangelico ben compreso e una riflessione laica ben condotta.
Le Chiese nella polisCosa pensare degli interventi delle Chiese (delle istituzioni ecclesiali) in campo sociale e politico? Anche qui si constatano, nel cristianesimo e in particolare nel protestantesimo, delle divergenze.
L’astensioneSecondo una prima corrente, le Chiese dovrebbero astenersi dall’esprimersi sui problemi della società e di pronunciarsi sulle questioni che riguardano la politica. Quando lo fanno, escono dal loro ruolo. Non hanno autorità in questo campo e compiono un abuso se vi si immischiano.

Negli anni ’50, in Germania, numerosi responsabili ecclesiastici protestanti si auguravano che i sinodi dessero delle indicazioni di voto, o in ogni caso consigliassero e orientassero i fedeli chiamati a mettere la scheda nell’urna. Le Chiese, dicevano, avevano fallito nella loro missione nel 1933 non chiamando esplicitamente a votare contro il nazismo, cosa che forse avrebbe impedito a Hitler di salire al potere. Non volevano che si ripetesse quell’errore.

Contro questo augurio, nel 1958 il teologo tedesco luterano Rudolf Bultmann, che era stato un oppositore risoluto e dichiarato al nazismo, in un articolo che fece molto rumore scrisse: “La Chiesa deve predicare la parola di Dio e non emettere dei giudizi politici.” Bultmann sottolineò due punti. Prima di tutto, disse, la fede non deve appoggiare o legittimare delle ideologie e delle pratiche, per quanto rispettabili siano. Nessun orientamento politico può pretendere di essere la sola scelta conforme all’Evangelo. La fedeltà a Cristo si vive in molti modi; le Chiese devono guardarsi dall’assolutizzare, dall’idealizzare e dal santificare uno di questi modi. In secondo luogo, dichiarò Bultmann, è normale che le Chiese invitino i loro fedeli a compiere con serietà i loro doveri di cittadini e a impegnarsi politicamente tenendo conto delle esigenze evangeliche. Ma non devono dettare scelte; queste riguardano la coscienza e le decisioni di ciascuno. È una questione tra Dio e il fedele. Quando si vuole che la Chiesa si esprima e dia delle indicazioni politiche si scivola verso la concezione cattolica della Chiesa, che le conferisce il magistero e ritiene che sia suo dovere dettar legge al cristiano, e si abbandona la concezione protestante che fa appello e rimanda alla responsabilità individuale del credente.
L’interventoUna seconda corrente sostiene che non ci si può limitare a dire che spetta ai fedeli presi individualmente prendere posizione in campo politico, in base alle loro convinzioni religiose e alla loro analisi della situazione. Nella nostra società, in effetti, i gruppi in quanto tali hanno un peso che persone isolate non hanno. Le “autorità morali” giocano un ruolo talvolta importante. Capita d’altronde che i poteri pubblici sollecitino il loro consiglio o il loro aiuto. Se lo Stato non è sottomesso alle Chiese come nel regime di cristianità, rimane il fatto che le Chiese sono nello Stato. Restando in silenzio, astenendosi e disinteressandosi della politica (vale a dire dell’organizzazione e del funzionamento delle relazioni all’interno di un gruppo) esse si rifiutano di rendere un servizio alla società, e non sono testimoni e strumenti del Dio presente nel mondo.

Tuttavia le obiezioni avanzate dalla prima corrente sono giuste ed è importante interrogarsi sugli interventi ecclesiali. Come fare la cernita tra quelli che sono illegittimi o abusivi e quelli che sono normali e necessari? Cosa devono e possono fare le Chiese in questo campo senza violare la laicità dello Stato e della società, senza cadere in un autoritarismo oltranzista e rispettando la responsabilità personale dei loro membri? A questa domanda si dà in generale una doppia risposta.

In primo luogo, si ritiene che le Chiese hanno come funzione quella di porre dei limiti, di ricordare che le frontiere che vanno oltrepassate, di denunciare l’inaccettabile. Non hanno né la vocazione né la competenza per elaborare e proporre un programma politico. Invece spetta a loro mettere in guardia contro i pericoli e le derive, protestare contro gli eccessi e le trasgressioni. Devono segnalare ciò che non va (e in ogni società c’è sempre un mucchio di cose che non vanno) e chiedere che vengano applicati dei rimedi, anche se non sono tenute ad indicare una soluzione precisa ai problemi segnalati. Escono dal loro ruolo, per esempio, se tracciano le linee di una politica dell’immigrazione, ma hanno il dovere di protestare se gli immigrati non vengono trattati umanamente. Così le teologie sudamericane della liberazione hanno avuto ragione quando se la sono presa con un ordine economico che riduce una parte della popolazione allo stato di “non persona”; si sono invece avventurate per un sentiero scivoloso quando hanno voluto elaborare un altro ordine economico. Nel 1942, il cardinale Saliège e il pastore Boegner si guardarono bene dal dire quale regime conveniva alla Francia; se l’avessero fatto, avrebbero oltrepassato il loro mandato di responsabili ecclesiastici. Al contrario, denunciarono la persecuzione abbattutasi sugli ebrei. Il loro intervento incontestabilmente politico non aveva nulla dell’ingerenza, si inseriva bene nel quadro del ministero che era stato loro affidato.

Bisogna rifiutare che le istituzioni religiose esercitino direttamente o prendano indirettamente il potere, ma fa parte della loro missione, all’occorrenza, quando avvengono degli eccessi, indirizzare ai dirigenti delle “rimostranze”, come si diceva sotto l’Ancien Régime. Negli esempi che ho appena citato, le esigenze della fede cristiana non si distinguono da quelle di un’etica umanista. Le Chiese sono nella stessa situazione e hanno la stessa responsabilità dei gruppi morali non religiosi, come la Lega dei diritti dell’uomo, per esempio, o le varie massonerie. Non si tratta quindi affatto di conferire loro uno status diverso, di farne delle eccezioni.

In secondo luogo, si ritiene che se l’istituzione ecclesiale non deve dare ordini ai fedeli che ne fanno parte, deve invece aiutare e nutrire la loro riflessione, organizzando dei dibattiti, pubblicando documenti informativi e studi che permettano di approfondire le questioni all’ordine del giorno. Così facendo, le Chiese contribuiscono alla serietà dell’impegno e delle prese di posizione dei loro membri e degli altri cittadini. Nel nostro paese, il dibattito politico è spesso più passionale che meditato, più spettacolare che profondo. Ci si affronta, si cerca di avere il sopravvento sull’altro e praticamente non ci si preoccupa di elaborare insieme delle soluzioni. Una delle vocazioni del protestantesimo è di favorire il pensiero. Questo vale anche per la politica, in cui è importante introdurre e sviluppare la riflessione, se non si vuole che degeneri in una ressa confusa e irrazionale dove ci si batte a colpi di slogan e l’immagine conta più della competenza. Non si tratta di imporre delle parole d’ordine, ma di suscitare una riflessione.

Ho distinto, nel protestantesimo, due correnti. La prima vuol tenere la fede e le Chiese il più possibile lontane dalla politica. La seconda intende tessere dei legami tra la religione e la politica, senza per questo mai confonderle. Ho cercato di chiarire e spiegare le posizioni, a metterle faccia a faccia senza sceglierne per forza una. Questo non mi impedisce di avere delle convinzioni. Prima di tutto bisogna assolutamente mantenere il principio laico fondamentale secondo il quale non è compito della religione dirigere o governare la società. Il protestantesimo ha aderito da lungo tempo a questo principio che è in armonia con la sua teologia e la sua spiritualità. Ma sono anche convinto che questo principio non impedisce alle Chiese di intervenire nel campo della politica, senza cercare di dettar legge, di dominarlo, di imporre le proprie vedute, ma difendendo attraverso la persuasione, la spiegazione e la discussione, mai con la costrizione, i valori di umanità e giustizia che non sono le sole a rappresentare e sostenere.

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