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“Perché chiedi il mio nome?” (Genesi 32,23-32)

Un uomo ne aggredisce un altro, in un luogo isolato. È notte, e all’aurora l’aggressore fugge, lasciando l’altro in vita, ma menomato all’anca.

È un fatto di cronaca come ne accadono in continuazione, tanto oggi in Europa che nel V secolo avanti Cristo in Mesopotamia. Ed è precisamente qui, a Babilonia, che troviamo uno scrittore singolare che sta per scrivere una delle più belle storie della Bibbia, quella che viene chiamata “la lotta di Giacobbe con l’angelo”.

Questo scrittore è probabilmente figlio di immigrati, o piuttosto di deportati, di quella grande deportazione del 587 avanti Cristo. Non si sente più veramente giudeo, neanche persiano, ma ha avuto l’opportunità di imparare a leggere e scrivere la lingua che si parlava un tempo nel suo paese di origine, Israele. Questo scrittore si sente un po’ isolato, perché è circondato da compatrioti un po’ troppo “ideologi” per i suoi gusti. Per lui tutto si spiega. Se c’è stata deportazione è perché il popolo di Giuda si è comportato male di fronte a un Dio che tende a divenire universale, con tutte le inevitabili derive che si possono immaginare. Essi sono alla ricerca di eroi favolosi, molto classici e molto religiosi. Tra di loro si trovano molti sacerdoti, molti loro discendenti… E poi ha sentito parlare di un possibile “ritorno” nel paese, a Gerusalemme, dove i suoi nonni erano verosimilmente dei funzionari al palazzo del Re. Ma non sarà facile, perché tutti i posti buoni sono occupati.

D’altronde bisognerebbe trovare un nome per motivare tutto questo popolo di esiliati…

Allora il nostro uomo una sera si mette al lavoro. Per il nome, sa che i sacerdoti l’hanno già trovato: Israele. È il loro Dio che l’avrebbe dato a Giacobbe, a Bethel.

Però no, le cose non sono andate così. Giacobbe, prima di tutto, era lungi dall’essere un eroe, al contrario: questo bugiardo, questo vigliacco è un infrequentabile. E quando arriva allo Yabboq , è un uomo angosciato, quasi morto di paura davanti alla collera di suo fratello Esaù che lo attende. Giacobbe ha d’altronde già imbastito tutto un piano da mascalzone per sfuggirgli, ha spinto tutto il suo mondo davanti a sé, e resta tutto solo, l’ultimo a passare il guado. Ed è lì che arriva l’inatteso: Giacobbe si fa aggredire di notte, siccome è una cosa che accade molto spesso nella regione… Allora, per la prima volta in vita sua, Giacobbe si comporta coraggiosamente, e lotta, lotta per la vita. Alle prime luci dell’alba rimane menomato all’anca ma ancora in vita. Ed è felice malgrado tutto: si è battuto, invece di battere in ritirata, come un cane, come sempre. Domanda al suo aggressore di dirgli qualcosa di forte. E l’altro lo chiama Israele, che può voler dire: “La tua lotta ti ha aperto una porta”. E Giacobbe conclude che attraverso la sua lotta con quest’uomo, attraverso questo incontro, qualcosa di divino è accaduto, che si chiama coraggio: “Peniel”. Ho incontrato il divino grazie a un uomo!

Ma quindi chi era, quest’uomo che ha appena incontrato? Un angelo, o un dio, o un uomo? “Dimmi il tuo nome?” E l’altro si rifiuta di rispondergli: non farti questo problema! Allora, quando alle prime luci dell’alba il nostro scrittore finisce la sua storia, ci fa il suo più bel regalo, la grazia di ogni vera letteratura. Attraverso un incontro, un incontro reale, Giacobbe è divenuto altro grazie a qualcun altro, con o senza la maiuscola, o grazie a un “sostantivo”, dio, diventato “aggettivo”, divino. Come la nostra esistenza può trovarsi scombussolata da qualcuno che si è appena incrociato e che ci invita a un pellegrinaggio, a dare il meglio di noi stessi. Come Giacobbe che, alle prime luci dell’alba, attraversa il guado e affronta suo fratello che…”corse a incontrarlo, gli si gettò al collo, lo abbracciò e piansero.”

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