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Il ritmo delle stagioni e il calendario delle feste cristiane

Nel XVI secolo i Riformatori, Calvino in particolare, hanno semplificato drasticamente l’anno liturgico, vale a dire il calendario delle diverse feste cristiane, per rimettere al centro di ogni culto e di ogni celebrazione Cristo e l’annuncio della sua resurrezione. Per l’abuso di feste votive e in particolare per l’eccessiva familiarità con la natura, il cristianesimo era accusato di incoraggiare il paganesimo e l’idolatria.

Ma ecco, il nostro contesto non è quello del XVI secolo, nel quale la società agricola ritmava la vita degli uomini, con un ascendente eccessivo sulla loro libertà. Non siamo nemmeno all’epoca di Mosè quando bisognava proteggere il popolo dal paganesimo dei suoi vicini annunciandogli: “Veglia sulla tua anima affinché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito celeste, tu non ti senta attratto a prostrarti davanti a quelle cose e a offrire loro un culto.” (Deuteronomio 4,19) In questi due contesti si trattava di ribadire costantemente che se noi ci sentiamo piccoli di fronte alla natura, di fronte alla sua forza e alla sua fragilità, Dio è sempre più grande di lei perché ne è il Creatore. Oggi, questa stessa natura resa fragile può ritrovare un posto importante nella nostra comprensione delle feste cristiane, non divinizzandola, ma facendone una realtà da vivere tanto nel nostro quotidiano che nelle nostre feste cristiane.

Noi viviamo nel XXI secolo, un secolo che cerca la sua speranza, che cerca il suo avvenire e ha perduto ogni buon senso nell’approcciarsi al suo ambiente. In questo secolo il corpo tende a nascondersi dietro protesi tecniche sempre più invasive, sempre più alienanti, sempre più nefaste per il nostro corpo. Ma allo stesso modo in cui l’albero deve affondare le sue radici nella terra per salire verso il cielo, la nostra vita intera non può fiorire se non si incarna in un corpo nel suo ambiente. Una qualsiasi città ha bisogno del cibo che viene dalla campagna; ha bisogno di acqua potabile, ha bisogno di aria respirabile. Che lo voglia o no, l’essere umano vive in interazione costante con il suo ambiente. Che lo voglia o no, l’essere umano fa parte dell’ambiente nel quale vive; ma è proprio l’essere umano, in realtà, che costituisce prima di tutto l’ambiente delle altre creature! Il pianeta Terra non è solamente un formidabile serbatoio economico di materie prime, fa anche molto semplicemente parte della nostra vita.

L’idolatria che minaccia oggigiorno la nostra fede non è più l’adorazione della natura, ma un certo scientismo, vale a dire quella religione che ci fa credere che il corpo e il pianeta Terra sono solo dei volgari ricettacoli di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno: il progresso ci permette di far crescere le fragole in inverno, le centrali nucleari ci forniscono abbastanza corrente per illuminare tutta la Francia durante la notte, l’aereo e il telefono portatile permettono di superare tutte le distanze. Al contrario, dire che abbiamo un solo pianeta a disposizione, ricordare che ogni vita umana è limitata e ritmata da stagioni che non dipendono da noi, non è segno di idolatria pagana ma piuttosto di un atteggiamento evangelico di rispetto di fronte al Creatore. Oggi stiamo arretrando a sufficienza per constatare i guasti di una fede cieca nel progresso.

Mi dichiaro quindi a favore della messa in pratica dell’anno liturgico, ma aggiungendovi una dimensione ancora troppo poco esplorata o poco accettata: la sua concordanza con il ritmo delle stagioni.

Questo anno è dominato dal tempo di Pasqua, tempo di primavera che sempre rinasce, tempo della vita che sgorga ancora e ancora. La croce si innalza come principio e come compimento della fede. È il tempo delle ciliegie che concentra le lotte e le vittorie, è attraverso la gioia di questo tempo che può essere trascesa la pesantezza della storia e di tutti i suoi determinismi.

Segue l’estate con il tempo della Chiesa, come lo si designa comunemente. Dall’Ascensione l’avvenire è ormai nelle mani degli uomini. Altri hanno seminato, Dio ha fatto crescere, ma ora bisogna rimboccarsi le maniche e partecipare alla mietitura.

Poi la bella stagione lascia il posto all’autunno, un tempo che non esiste nella nostra liturgia in tre tempi (Pasqua, Natale, Chiesa) e che tuttavia è ben presente nella vita quotidiana e in quella delle Chiese. Siamo alle porte dell’inverno: l’uomo deve lottare per accumulare le riserve e resistere fino ai prossimi raccolti. La natura, così generosa in primavera, diviene opprimente e fonte di angoscia. Ci si ricorda dei morti, si scruta il tempo che farà con inquietudine. È a quest’epoca che gli ortodossi celebrano la Creazione e che i protestanti commemorano, con la festa della Riforma (celebrata sia l’ultima domenica di ottobre sia la prima di novembre), la Riforma della Chiesa. L’autunno prende allora la forma di un tempo di lode al Dio creatore: Soli Deo gloria (A Dio solo la gloria)! Distruggendo la Creazione, assolutizzando la Chiesa, l’uomo troppo orgoglioso ha voluto fare ombra a Dio. Questa stagione richiama al bisogno di riforma di una Chiesa troppo sicura di se stessa e delle sue tradizioni. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese ha scelto di chiamare questo periodo “il tempo della Creazione”. Una iniziativa gradita. Anche l’autunno ha diritto a un posto nei nostri ritmi cultuali.

Il tempo di Natale, infine, spunta come un tempo di speranza. Nel cuore dell’inverno e delle nostre tenebre, ci fa intravedere l’alba di una nuova terra e di nuovi cieli. L’attesa non è più sentita come una fatalità o come una punizione, ma come un tempo da abitare per fare spazio a Dio. Lo spogliarsi dell’inverno è immagine delle rinunce necessarie a costruire una nuova alleanza, in grado di farci uscire dai nostri egoismi e di metterci in cammino con Dio e nel cuore del mondo. L’attesa di Natale, l’attesa della festa o l’attesa della luce sono altrettanti luoghi per parlare dell’attesa del regno di Dio, attesa attiva che ci orienta verso un avvenire pieno di promesse, e questo nel cantiere di un mondo da costruire.

Credo che sia appoggiandosi al ritmo delle stagioni, accettando la nostra incarnazione e la dimensione ciclica di ogni vita biologica che noi possiamo predicare un Evangelo che liberi dalle pesantezze infernali, che trascenda la Storia e riconcili le azioni degli uomini con quelle di Dio. Il cammino che propongo qui non è un ritorno nostalgico al giardino di Eden o a chissà quale riserva naturale e meravigliosa, è al contrario l’attesa attiva e fiduciosa di quel regno di Dio nel quale l’albero della vita darà frutto durante ciascuno dei dodici mesi dell’anno.

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