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Non bisogna perdonare?

Il malePoiché la questione del perdono non si porrebbe se non ci fosse niente da perdonare. Il perdono si rivolge al male che prende diverse forme. Ci sono i piccoli fastidi dell’esistenza: qualcuno che ci passa davanti in una fila e prende il nostro posto. Qualcuno che entra in metropolitana con la musica ad alto volume che ci disturba. Ma questi piccoli fastidi non sono che bazzecole confrontati con quello che occupa veramente la nostra mente quando riflettiamo su cos’è il perdono. Pensiamo a quei genitori che, con il loro atteggiamento noncurante o, al contrario, violento, hanno rubato la giovinezza dei loro figli. Pensiamo a quei criminali che, volontariamente o meno, causando la morte di una persona ci hanno rapito un essere amato. Pensiamo ai crimini contro l’umanità che, in qualche occasione, si sono trasformati in autentiche organizzazioni dedite a sottrarre al mondo dei vivi una cultura o una popolazione. Tutti questi morti costituiscono altrettanti debiti: queste persone che sono state ghermite all’affetto dei loro cari e al regno della vita.

L’immagine del debito è giusta, ma a condizione di considerarla come ne parla il passo biblico citato sopra, tenendo a mente gli ordini di grandezza per ricavarne un primo insegnamento sull’argomento del male: 10.000 talenti doveva un servitore… quando si sa che un talento valeva un chilo d’oro, si misura la dismisura del debito. C’è qui l’intuizione secondo la quale il male non è mai misurabile, che ci è impossibile valutare il male, che esso va sempre oltre quello che si può dirne. Pietro, nel momento in cui interroga Gesù, vive nell’illusione che sia possibile valutare il male e quindi il perdono necessario per contrastarlo. Ma la risposta di Gesù invita Pietro a scoprire il carattere infinito del perdono, giustamente, perché il male non è quantificabile o, per essere più precisi, il male non è un fatto oggettivo, che si può tenere a distanza, osservare e quantificare. Ecco del resto il secondo insegnamento prezioso riguardo al male: non solo non è possibile misurarlo, ma non è possibile definirlo. Almeno gli autori biblici saranno sempre reticenti all’idea di definire il male commesso, di farne una esposizione teorica. Perché da una persona all’altra ci sono così tante differenze sull’importanza da dare a questo o quell’aspetto del male?

Il fatto è che il solo aspetto del male al quale abbiamo veramente accesso è il male che subiamo, quello che ci fa male. Anche Pietro agisce così: è l’offeso che parla quando domanda “Quante volte perdonerò a mio fratello se pecca contro di me?” È a partire da questo male subìto che i testi biblici riflettono sul problema del perdono, in primo luogo perché bisogna avere coscienza del carattere incommensurabile del male che si tratta di elaborare, e in secondo luogo, perché bisogna capire che il male è l’affare di individui alle prese con ciò che fa male per comprendere che il perdono sarà sempre e solo l’affare di individui, direttamente interessati dal male in questione.
Il perdono: una impossibile necessitàGesù ci mette sulle tracce della ragion d’essere del perdono, che non è benefico in primo luogo per colui che è perdonato, ma per colui che perdona. Il primo a beneficiare del perdono è colui che perdona poiché è perdonando che ci si libera del male subìto. Non perdonare significa mantenere il criminale nella posizione del criminale, e quindi mantenere se stessi nella posizione della vittima e continuare a soffrire del male che è stato commesso. È il senso del finale della parabola che cerca di farci comprendere che una memoria senza perdono ci conduce dritti dritti all’inferno, perché significa che non cessiamo di torturarci. Così, il perdono non è prima di tutto un obbligo morale o religioso, ma una necessità esistenziale per la nostra salvezza qui e ora, una sorta di igiene di vita con la quale evitiamo di condannarci all’infelicità e, di conseguenza, di produrre infelicità intorno a noi. Hannah Arendt, per parte sua, scriveva: “Bisogna perdonare, lasciar correre, perché la vita possa continuare, sciogliendo costantemente gli uomini da ciò che hanno fatto a loro insaputa.” (La condizione umana) Ma se il male non è stato fatto all’insaputa dell’offensore? Dobbiamo abbordare la questione del perdono nel caso in cui il male è stato commesso in tutta coscienza. Ci sono cose imperdonabili? Ci sono delle offese così gravi che il perdono non è possibile?

Nel suo testo intitolato “Perdonare?”, in cui parla di cosa fare dopo la Shoah, Vladimir Jankélévitch comincia ribaltando la frase ben conosciuta di Gesù sulla croce scrivendo “Signore, non perdonarli, perché sanno quello che fanno.” Dopo avere considerato che i Tedeschi portano una responsabilità collettiva, con uno sguardo sulla storia che appartiene solo a lui, avvia la sua requisitoria contro la possibilità di un perdono in questi termini: “Che un popolo bonario abbia potuto divenire questo popolo di cani rabbiosi, ecco un argomento inesauribile di perplessità e stupefazione. Ci verrà rimproverato di equiparare quei malfattori a dei cani? In effetti, lo confesso: l’equiparazione è ingiuriosa per i cani.” E prosegue così, un po’ più avanti: “Il perdono! Ma loro ci hanno mai chiesto perdono? […] Quando il colpevole è grasso, ben nutrito, prospero, arricchito dal “miracolo economico”, il perdono è una facezia sinistra. No, il perdono non è fatto per i porci e le loro scrofe. Il perdono è morto nei campi della morte.”

Ma il perdono non è forse destinato, giustamente, a ciò che non è scusabile? Più ancora, il perdono sarebbe ancora il perdono se fosse legato a qualche condizione come una domanda di perdono o un atto di pentimento? Consideriamo che il perdono è a prova di impossibile, come attesta il carattere infinito dell’esortazione rivolta a Pietro, ma anche il valore del debito rimesso al servitore. Sentiamo una eco di questo nella comprensione del perdono di Jacques Derrida che diceva: “Non si può e non si dovrebbe perdonare, non c’è perdono, che là dove vi è l’imperdonabile.” Impossibile per un individuo ordinario rimborsare milioni di euro, impossibile riparare un crimine contro l’umanità. Ecco perché Gesù stabilisce che il perdono è incondizionato e senza restrizioni. Non presuppone una domanda di perdono e il perdono non concerne solamente una parte del debito ma la sua integralità.

Di fronte a questa esigenza siamo pronti a resistere. Paul Vergara, pastore al tempio dell’Oratoire du Louvre a Parigi, che salvò una sessantina di bambini ebrei durante la seconda guerra mondiale, dichiarò il 25 febbraio 1945: “Non vi è alcun dubbio che l’insegnamento di Gesù su questo punto sia tassativo: da uomo a uomo il perdono è un dovere illimitato per il cristiano. […] Dio non può, in Gesù, domandarci il perdono illimitato se lui stesso dovesse essere limitato nel suo, se dovesse esserci, nelle nostre colpe, un massimo al di là del quale la grazia di Dio ci sarebbe rifiutata. Comprendiamo che il solo limite al perdono di Dio siamo noi che lo fissiamo, quando noi stessi siamo limitati nella nostra generosità verso coloro che ci hanno offesi.”

L’Evangelo ragiona su questo perdono originale di Dio, ma anche sulla nostra responsabilità di perdonare a nostra volta perché il perdono di Dio sia veramente liberatore. Quando un offeso non mostra pietà, rimane sottomesso al male che ha subito e alla disgrazia della vendetta. L’Eterno ci fa la grazia di un perdono possibile perché possiamo sconfiggere il male.

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