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E’ sacra la vita?

 Vincent Schmid

Una riflessione sull’assistenza al suicidio

traduzione J.-F. Rebeaud

L’associazione Exit pratica legalmente dal 2005 in Svizzera un accompagnamento che permette a persone sofferenti di malattia incurabile di mettere esse stesse un termine alle loro sofferenze. Questa prassi, giuridicamente molto precisamente inquadrata, è stata documentata in un filmato di un’ammirabile finezza: La scelta di Jean.
La delicata questione della morte volontaria è una realtà che la Scrittura non elude. Saul, Elia, Giobbe, Paulo, tutte queste figure ci sono presentate come afferrate ad un momento o all’altro dal desiderio di farla finita con la vita. Alcuni come Saul, Sansone o Giuda, compiono il gesto fatale. Si tratta di uno stato limite del comportamento umano che viene registrato ma non giudicato. Appare ogni volta in un registro chiaramente delineato dell’esperienza umana.

Che insegnamento se ne puo’ trarre?
– E’ possibile di capire la morte volontaria in quanto atto ultimo di libertà. La libertà ultima di un uomo di fronte all’ineluttabile destino consiste nel scegliere piuttosto che subire. Vale la pena ricordare in che modo gli evangeli, particolarment il quarto, presentano l’attitudine di Gesù di fronte alla croce. Avrebbe potuto facilmente scappare ai suoi avversari (nascondendosi o fuggendo più lontano, non gli sarebbero mancati gli aiuti), invece li affronta sovranamente. Sceglie di essere un attore della sua morte. « Nessuno mi toglie la vita, ma la depongo da me » (Giov. 10,18). Ratifica la sua parola pubblica con la sua morte volontaria.
In tal senso è vicino a parecchi filosofi del mondo antico che accettavano l’idea di marciare verso la morte. Come il Cristo, Socrate stimava che ci sono delle cause più elevate e più importanti della sola salvaguardia della propria vita.
– Vi è un altro modo di considerare la sofferenza indotta dalla degradazione fisica. Contrariamente a tanti stereotipi doloristi che circolano ancora malgrado i progressi della medicina, bisogna ribadire con forza che la sofferenza non è un valore in quanto tale. Non salva, non purifica, non eleva. La sofferenza è dell’ordine della tragedia, non della redenzione. E’ la controparte esorbitante della vita sensibile, che è per forza ambivalente. Voler evitarla o abbreviarla qualora non ci sia più nessuna speranza di guarigione è una attitudine che si può capire anche se non la si condivide.
– La morte volontaria non è priva di attenzione per gli altri. L’ammalato incurabile che compie su sè stesso il gesto fatale rifiuta di infliggere a coloro che ama e che gli sono vicini lo spettacolo della malattia che lo distrugge. Vuole proteggerli del peso di una dipendenza sempre più gravosa. E’ un modo per lui di evitare che essi finiscano per sperare nella sua morte dal momento che la situazione diventa insostenibile. Siamo in presenza di una forma di dono di sè nel senso più alto dell’espressione « nessuno ha amore più grande che quello di dar la sua vita per i suoi amici » (Giov. 15,13).
– La morte volontaria, infine, non daneggia la dimensione spirituale dell’ essere umano. Può darsi che il Salmo 139 alluda proprio a questo stato limite del desiderio di morte:  » Se dico: certo le tenebre mi nasconderanno… le tenebre stesse non possono nasconderti nulla » (Sal. 139,11). Questo passo è molto interessante poichè allude a qualcuno che vorrebbe scappare a Dio attraverso la morte volontaria. Ed ecco che il Salmista afferma che anche questo stato limite non è capace di rompere il legame spirituale che ci allaccia a Dio.
Così l’atto più radicale che un essere umano possa compiere su sè stesso, quali che ne siano le ragioni, non può scoraggiare l’amore dell’Altro. Lo conferma l’epistola ai Romani: Nè morte nè vita… potranno separarci… » (Rom. 8,38). Tutti questi elementi ci permettono di avere uno sguardo positivo su una questione che l’evoluzione demografica e scientifica delle nostre società sta per rendere sempre più acuta.

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