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Sant’Anselmo era un liberale? Nadine Manson

Se navigate sulla Rete, e digitate il nome di Anselmo di Canterbury ( o di Aosta ), apprenderete che è stato canonizzato, che sarebbe nato ad Aosta nel 1033 o nel 1034, che è morto nel 1109, che è stato arcivescovo, e che è considerato il padre della scolastica, cioè di quell’insegnamento universitario, che conoscerà il suo apogeo nel XIII secolo ( Tommaso d’Aquino ), che sarà rifiutato dalla Riforma nella misura in cui questa scolastica cercava troppo di conciliare la fede e la ragione. Se oggi domandate a un teologo protestante cosa ne pensa, vi renderete conto che Anselmo non è in odore di santità. La sua dottrina della redenzione foggia in effetti un Dio crudele che non corrisponde assolutamente più alla nostra ricezione moderna dell’Evangelo della grazia.

Un teologo di questa portata, che sembra così lontano dal nostro pensiero attuale, ha ancora qualcosa da offrirci? Questa questione mi si è imposta da quando, qualche anno fa, sono stato indotto ad aprire le opere di Anselmo. In lui ho scoperto un maestro del dialogo tra la logica e la fede. Astraendo dalla sua detestabile dottrina della salvezza, credo che sia possibile scoprire in lui una interessante complessità, specialmente in ciò che concerne la sua relazione con Dio. Questa relazione è, mi sembra, di una modernità sorprendente. Rilevo tre aspetti.

L’irriducibilità dell’esperienza al linguaggio

Con Anselmo si opera una tacita dicotomia tra il Dio che egli contempla e che prega, e la nozione di Dio, ovvero la definizione che egli ne dà. Se egli prega, è perché è convinto che tutte le sue facoltà dipendono da Dio e che è una creatura di Dio. Mai Anselmo pensa di poter definire che adora e che lo ha creato. Rimette nelle mani di Dio tutta la sua riflessione intellettuale. Il nome che Anselmo può dare a Dio non sarà mai, in nessun modo, all’altezza del Dio che egli venera. Poiché, nella sua fede, Anselmo sa che le sue facoltà umane non potranno in alcun caso pretendere di afferrare Dio. Le sue facoltà possono attribuire dei nomi a Dio, ma resteranno irrimediabilmente lontane da ciò che è Dio.

Se affrontate la lettura del Proslogion di Anselmo, piccola opera che ha aperto il dibattito inestinguibile sull’esistenza di Dio, non perdete mai di vista questa lucida umiltà dell’autore. Il Dio che egli cerca di definire è anche quello che egli venera. Questo perché vi è questo incessante andata e ritorno, questo movimento di va e vieni tra la preghiera al Dio innominabile e indefinibile e questa riflessione dialettica sulla definizione da dare di Dio. Più che un andata e ritorno, c’è un intreccio tra il Dio della fede e la nozione di Dio. Per illustrarlo, è sufficiente leggere queste poche righe di Anselmo: “ E ora, Tu Signore mio Dio, insegna al mio cuore dove e come cercarTi, dove e come cercarTi. […] Non Ti ho mai visto, Signore mio Dio, non conosco il Tuo volto. […] Tu mi hai fatto, e fatto dal nulla, Tu mi hai conferito tutti i miei beni, e ancora non Ti conosco. […] Abbi pietà delle nostre fatiche e dei nostri sforzi verso di Te, noi che non valiamo nulla senza di Te. Insegnami a cercarTi, mostraTi a chi Ti cerca, poiché non posso cercarTi se Tu non mi istruisci, né trovarTi se Tu non ti mostri. Che io Ti cerchi desiderando, che io desìderi cercando. Che io trovi amando, che io ami trovando. “ La fede è un’esperienza di preghiera e di contemplazione che, quando incontra l’esperto di dialettica, non trova parole per esprimere ciò che vive. Detto altrimenti, l’esperienza esistenziale della fede è irriducibile al linguaggio.

Necessità di una teoria del linguaggio su Dio

Non si tratta tanto di tacere su Dio. Anselmo cerca un nome che possa permettere di pensare Dio. Non per afferrarlo e definirlo nella sua totalità – nella fede egli abbandona questa ambizione – ma per imparare a pensarlo. Perché pensarlo? In effetti, se nella fede, nell’esperienza, nell’esistenza, Dio si è già rivelato a noi, a che pro volerlo trovare per un’altra via?

Ma Anselmo vuole rispondere a una domanda. Infatti, attaccati nella loro fede da un versetto biblico ( “ Dice lo stolto in cuor suo: Dio non c’è “ Salmi 14,1 e 53,1 ), dei monaci hanno chiamato in aiuto Anselmo, loro pari, che si è messo al lavoro. Il suo compito è inedito. Arrivare a rivolgersi agli “ stolti “ in un vocabolario profano, senza alcun riferimento al bagaglio specifico della Chiesa

( catechismi, confessioni di fede ) e parlare loro di Dio. Il Proslogion è questo tentativo di far intravedere agli “ stolti “ la nozione di infinito, di perfezione, di eternità. Anselmo non prepara una lista di qualità e di attributi di Dio. Invita a pensare, affermando semplicemente che riconoscere la possibilità intellettuale di pensare un “ tale che niente di più grande può essere pensato “ è un mezzo dato alla ragione umana per prendere coscienza di questa realtà divina. Questa realtà divina, nella fede, comprende nozioni quali la vita eterna, l’Alpha e l’Omega, la resurrezione. Ma al di fuori di questo vocabolario, come qualificarla, come definirla per parlarne con gli “ stolti “? Anselmo propone: “ Così dunque, qualcosa, di cui non si può pensare niente di più grande, è così veramente che non si possa pensare che egli non sia. Tu sei quello, Signore, nostro Dio. Così Tu sei veramente così che non si possa pensare che Tu non sia. “ ( Monologion Proslogion ) In linguaggio moderno, Anselmo pone l’esistenza inevitabile di questo qualcosa. I filosofi e i metafisici parlano più volentieri di esistenza necessaria. Questo qualcosa corrisponde al “ tale che niente di più grande può essere pensato “. La sua esistenza inevitabile si dimostra in seguito per semplice deduzione logica. Anselmo invita quindi gli “ stolti “ a collegare la possibilità di questo qualcosa alla nozione di Dio. Il vantaggio di questo approccio è il suo inizio. Egli non riduce Dio a un catalogo delle sue qualità, le quali sono spesso generatrici di rifiuto e di delusione. Invece, facendo appello al pensiero, alla capacità d’astrazione, Anselmo apre a tutti gli “ stolti “ la possibilità di estrarre i loro concetti a priori su Dio, di superarne le definizioni ristrette e sterili.

C’è il dio della fede, colui che Anselmo venera. Ma non è di lui che si tratta. Si tratta della ragione umana e della sua facoltà di pensare il “ tale che niente di più grande può essere pensato “, cioè una nozione terribilmente astratta. Con Anselmo, non bisogna lasciarsi ingannare da questo intreccio di preghiera e dialettica proprio del Proslogion. Quando Anselmo prega, prega Dio, il Dio che non vede e che non può definire, e gli domanda aiuto nella sua ricerca intellettuale. La sua preghiera è la sua protezione, gli impedisce di cadere nell’orgogliosa pretesa di poter afferrare Dio.

Il coraggio di Anselmo, probabilmente legato alla sua epoca, consiste nel non avere mai avuto vergogna di esprimere esplicitamente la sua fede in Dio in uno scritto filosofico.

Assenza di ricerca ansiosa

La posta in gioco non è più la stessa, la partita è già stata vinta, l’angoscia è eliminata, la libertà è acquisita per chi si sa creatura del Dio di Gesù Cristo. Nella sua fede, Anselmo acquista una libertà più grande, quella di una ricerca intellettuale disinteressata. Non ha più bisogno né desiderio di afferrare questo Dio che già conosce e adora nella sua esperienza esistenziale. Nella sua fede, sa che è fuori dalla sua portata conoscere esaustivamente

ciò che è, e chi è Dio. Questo importa poco. Di colpo, egli non ha, contrariamente a ciò che lo “ stolto “ potrebbe credere, alcuna posta di fede da difendere nel suo compito di esprimere Dio. Alla fine, il dibattito non porta mai unicamente sulla fede in Dio o sull’esistenza di Dio. Si tratta più che altro di tentare di soddisfare il bisogno che ciascuno ha di dare un senso alla propria vita.

Anselmo è uno dei primi ad avere tentato di articolare la preghiera con la riflessione teorica. Preghiera e contemplazione da una parte, teorizzazione dall’altra. Ecco la sua modernità.

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